Alle tre di notte sballottata da un dosso apro una fessura di occhio sinistro. Dal finestrino il mondo ha un colore grigio- verde da eclissi solare. Crepuscolo astronomico lo chiamano: il cielo non è più nero nero e si iniziano a intravedere i contorni delle cose. È il preludio all’alba, non ancora aurora. Alle 4:30 il sole sorge vittorioso, rosso e incandescente. Meno vittoriosa sono io, nuovamente in balia di una notte insonne e travagliata ( la seconda trascorsa su un autobus, dall’inizio di questo viaggio) che trova riscontro nelle mie occhiaie nere nere e che a differenza del cielo in questione, non conoscono alcun crepuscolo astronomico. E Vilnius, a pochi passi dalla stazione degli autobus si svela. Ed ecco, lo sento. Lo avverto subito l’agio della città piccola, dei luoghi misurabili a passi, a falcate, a slanci e intuizioni. Lo sento quando un luogo ha il coraggio dell’ozio, il rispetto della quiete, la saggezza della calma.

È la capitale della Lituania ma a me sembra un qualcosa di piccino e confortevole che posso tenere sul palmo di una mano e girare e rigirare come un cubo di Rubik.
A meno di un’ora da Vilnius c’è Trakai, un paesino che si sviluppa su una lingua di terra, bagnata dal lago Galve e all’interno del lago, in un isolotto collegato da un ponte, lo splendido castello la cui costruzione risale al XIV secolo. L’immagine che più si avvicina all’idea di castello che avevo da bambina. Se me l’avessero fatto vedere a 8 anni, così perfetto, vero quanto un sogno, avrei detto che se lì dentro non ci fossero stati drago, principessa e relativo eroe, allora io non avrei più saputo a cosa credere in questa vita.
Passo molto tempo sdraiata su uno dei tanti pontili in legno. Se c’è dell’acqua io andrò lì. Sempre. Se potrò scegliere di avere i piedi a mollo, lo sceglierò. Se potrò avere a che fare con salsedine o acqua dolce è lì che bisognerà cercarmi.


La sera, una volta rientrata, mi dirigo immediatamente a Uzopis, il quartiere degli artisti di Vilnius. Nessuno lo voleva quell’intreccio decadente di case. Era un posto malfamato, pericoloso. Cadeva a pezzi. Allora gli artisti, che per loro natura riconoscono il bello dentro il marcio (e si prendono la responsabilità di fallire, nel caso) hanno detto: ci pensiamo noi, signori. Per prima cosa ci sono andati a vivere, hanno iniziato ad animarlo, a consolarlo. Poi hanno pensato che bisognasse festeggiare a dovere il bello riscoperto dentro a quel marcio. Ne hanno fatto una Repubblica, priva di qualsiasi valore giuridico e per questo decisamente molto seria. Hanno eletto un presidente, un vescovo. Si sono inventati un inno, una festa nazionale e una costituzione. È scritta, in tutte le lingue, su lastre riflettenti.


Uzopis significa “posto vicino al fiume” e infatti tutto il quartiere si sviluppa sul fiume Vilniele
1. Ogni uomo ha il diritto di vivere nei pressi del fiume Vilniele e il fiume Vilniele ha il diritto di scorrergli accanto.
Ovviamente sposo la Costituzione e, alla luce dell’articolo 1, sulle rive del fiume consumo la mia cena ( un panino)e la mia birra. Sono immersa in un mondo immaginifico dove gli alberi offrono libri e dove le pietre trovano arditi equilibri resistendo alla corrente del fiume.

Non capisco nulla di quello che dicono le persone attorno a me. Ma capisco l’attrazione antica verso l’acqua che coinvolge tutti noi. Nessuno riesce a rivolgere le pupille altrove. I nostri pensieri e anche le nostre parole vanno in offerta a lei. Se ci sono carezze e baci, a lei.
A lei malumori, scoramenti, ubriacature, cuori in pena, risa. A lei che meglio di qualsiasi altro elemento su questa terra sa scorrere. Gli artisti fanno lo stesso. Ci aiutano a stare e a scorrere. Entrambe le cose.
Ho amato ogni punto della costituzione della Repubblica di Uzopo, ma gli ultimi tre mi hanno fatto deglutire, tremare, innamorare e commuovere mentre, con il mio piccolo sacchetto della spesa, mi ci specchiavo dentro, e dentro ci finivo.
39. Non vincere
40. Non contrattaccare
41. Non arrenderti
