
“Fa che smetta” dice lui mentre pressa il suo impermeabile nel vertice interno della tenda, risolto, inspiegabilmente, applicando solo pochi cm di zanzariera.
“Fa che smetta” dico io, mentre presso il suo impermeabile nel vertice interno della tenda, attraverso il quale stanno entrando secchiate d’acqua. I lampi che, poco prima, regalavano uno spettacolo di luce maestoso e sublime al di là di quella nube, ora sono sopra le nostre teste e riducono a brandelli quella, che ai nostri 4 occhi sprovveduti e sognanti, sembrava una tiepida serata cinese.
È una tenda minuscola, presa prima di partire, scelta con quelle dimensioni e con quella leggerezza, perché altre, molto più strutturate, ci avrebbero impedito di salire agilmente.
Ci serviva così, ma non ci serviva così.
Per lo meno, avresti dovuto essere impermeabile, le diciamo.
Per lo meno, non avreste dovuto piantarmi quassù, ci risponde.
Ha ragione. Potevano scegliere la parte bassa della torretta, quella di passaggio, che non ci avrebbe riservato sconti in termini di vento, ma per lo meno ora non avremmo imbarcato acqua e il mio sacco a pelo sarebbe asciutto. Ma quassù, nascosti dalla vista di tutti, protetti dai due muri non collassati, con lo sguardo che scorre libero sulla spina dorsale di questo tratto sperduto di muraglia cinese, ci sentiamo due vedette di secoli passati.


La muraglia cinese.
Lei.
Dall’alto sembra un filo di lana fatto rotolare sui picchi delle montagne; con pendenze e dislivelli arditi e inimmaginabili che ci costringono a lavorare di punta, in salita, per non perdere l’equilibrio, e a camminare a zig zag, in discesa, per non distruggerci le ginocchia.
Abbiamo con noi solo due zainetti a testa, il resto l’abbiamo lasciato in ostello.
Lo stretto necessario, solo lo stretto necessario. Abbiamo con noi delle indicazioni trovate dopo diverse ricerche nei mesi che hanno anticipato la mia partenza. È un tratto non turistico di muraglia. Non è restaurata. Per arrivarci bisogna prendere due bus da Pechino, fino ad immergersi nella Cina rurale, verde da ogni parte la si guardi.
E poi inoltrarsi in un paesino, inerpicarsi in una salita, arrivare ad un muro, scavalcarlo e infine eccola, lei. Bellezza che fa tremare. Bella da scorticare, da piangere. Bella da farci sudare, mentre ci inabissiamo nelle sue salite vertiginose, nei gradini spezzati, nei tratti lastricati con maestria. Cemento e natura.
Stiamo camminando sulla storia e lo sentiamo. Di chi erano le mani che l’hanno costruita? Di chi la testa che l’ha progettata? Di chi le braccia che l’hanno difesa? Le nostre magliette sono fradice, man mano che saliamo diventiamo paonazzi. Il fiato ci manca. Bella da scorticare, da piangere.


Ed è nostra. È solo nostra. Non c’è anima viva. Attraversiamo le torrette, alcune splendono ancora di antica grazia, altre sono macerie, ma quella che scegliamo per accamparci ha entrambe le cose: è possente e diroccata. Per montare la tenda dobbiamo attraversare con molta cautela un tratto di muro a strapiombo sulle scale interne. La nostra cena sono due cetrioli, del pane, quasi immangiabile perché, ahi noi, farcito di una crema dolce, e del pesce essiccato, immangiabile senza il quasi. Due mandarini per concludere.
Parliamo poco, siamo in ascolto.
La luna illumina a giorno il tratto alle nostre spalle.
Poco dopo saremo raggomitolati nella tenda, con le gambe tenute strette dalle nostre braccia, la testa appoggiata sui rispettivi gomiti, i capelli e le magliette bagnate dal temporale. Ognuno nel suo pezzetto di tenda, due esseri umani al cospetto di una natura che esplode. Esausti. Impauriti.
Fa che smetta. Fa che passi questa notte fredda, i miei piedi bagnati nel sacco a pelo bagnato, il vento che mi percuote, i denti che battono, la pioggia che ricomincia.
Ma poi, fa che non smetta. La fame di avventura – anche quando l’avventura viene a ricordarti il suo prezzo – fa che non smetta la bellezza e il desiderio di andarla a cercare, fa che non smetta la natura di ricordarmi chi sono, facendomi sentire piccola ma anche grande.
E fa che non smetta l’amicizia. In nessun modo, mai. Fa che ci sia qualcuno nella mia tenda, nelle notti più lunghe, nelle notti come questa. Qualcuno che dica: stai tranquilla, passerà. È solo acqua. È solo vento.


Parma- Pechino via terra.
Penso a questo mentre alle 5:30 di mattina ripercorriamo in senso contrario la muraglia per tornare in città. Albeggia.
Anche la notte più lunga è destinata a finire.
Così come è destinato a finire ogni viaggio.
Mi sembra, in questo, di avere dato tutto ciò che potevo.
Mi sembra che questo mi abbia dato tutto ciò che poteva, oltre al privilegio di averlo condiviso, nell’ultima parte, con un carissimo amico.
Come sempre mi sembrano passati anni da quando ho preso il primo treno da Fidenza verso Milano.
E come sempre, ad ogni ritorno, sento il sangue che mi scorre nelle vene e ribolle e mi ricorda che sono viva -viva, santodio!-
e mi vorrei prendere a sberle per le volte che invece me lo dimentico.
È così bello essere a casa.