Pontremoli- Aulla
Questa tappa è tutta un mistero. E`una tappa che mi ricorda quelle mezze verità che si sentono per strada, che passando di bocca in bocca vengono modificate, accartocciate, romanzate e, quasi sempre, stravolte.
La guida, che mi ha prestato Andrea, propone una via; l’ufficio turistico, nelle vesti di una giovane ragazza con tanto di fotocopie nere stupendamente evidenziate, un’altra; e poi c’è la guida più recente che ogni tanto ho l’occasione di sbirciare dagli altri pellegrini e che sempre riserva grandi sorprese. Nel giro di pochi anni, la via Francigena si è modificata. Il perché non lo so, ma si propongono nuove strade. E`un cammino antico questo, ma suppongo che originariamente attraversasse quella che ora è la via principale e iper trafficata. Per cui il pellegrino, quando è possibile viene sviato verso campi assolati, montagne beffarde e boschi solitari. Oggi mi sento spaesata, approfitto di un incrocio – nel quale devo per forza prendere una decisione – per sedermi e mangiarmi una merendina. E penso che questo connubio incrocio-merendina dovrà per forza portare chiarezza. E in effetti è così. Poco dopo intercetto 3 signori (2 donne e un uomo, tutti sulla settantina). Mi sembrano pellegrini di lunga data. Più che dall’aspetto, si intuisce dalla serenità. C’è un momento in cui il corpo smette di remare contro, e invece di essere antagonista diventa alleato nella fatica. Queste persone sorridono e sembrano stare davvero bene, in gran forma, con un passo svelto e consapevole. Virano verso una stradina provinciale che non è quella segnata della guida, e senza nessun tentennamento decido di seguirli. Faccio bene. Costeggio il fiume e attraverso diversi paesini.
Una fornaia mi regala delle focacce. Tieni, mi dice, che se stai andando a Roma significa che ne hai delle belle da farti perdonare.
Dice eh? le rispondo sorridendo. E le tiro un bacio, perché non puoi regalarmi delle focacce e non avere i miei baci.
Decido di rientrare sulla Francigena da Villafranca, ma non guardo i cartelli con attenzione e mi ritrovo su una strada trafficata e piena di tornanti. Ormai sono troppo avanti per tornare indietro.
Che più che un fatto è una condizione.
A me l’idea di fare dietro front fa venire i brividi. La trovo innaturale. Anche simbolicamente parlando, tornare indietro è frustrazione pura. Tornare indietro, mi ricorda un’involuzione.
“tornare su i propri passi” è un’idea che mi piace solo nell’eccezione positiva del riflettere su quello che si sta facendo. Andare a vedere che orma abbiamo lasciato, mentre passavamo. Andare a vedere se abbiamo schiacciato qualcosa, anche involontariamente magari, o, ancora più profondamente, tornare in noi, rinsavire. Arrabbiarsi con bestialità indemoniata e poi chiedere scusa, ad esempio. In questo caso specifico fare un passo indietro significa farne 1000 in avanti.
E qui, mentre cammino è solo l’avanti che mi interessa. Quello che viene dopo. Quello che ancora non conosco, non quello che già ho conosciuto.
Ad Aulla ci arrivo con i piedi che chiedono pietà, perché l’asfalto è la cosa più tremenda che gli possa capitare.
All’ostello rivedo i tre signori. Sono Canadesi e sono partiti da Canterbury. Sono in cammino da mesi e sì, decisamente, il corpo non sta più remando contro. Il corpo fa tutto quello che loro gli dicono di fare. Non di più, non di meno.
E io, al mio di corpo, sto chiedendo, per favore, di portami a Sarzana domani. C’è un monte da scalare, facciamolo bene, con calma, con cura. Dillo ai polmoni. Dillo al cuore. Ci saranno delle salite.
Che ci vuoi fare? Ci sono sempre, no?