Sutri – Campagnano di Roma
Queste tappe sembrano la quiete dopo la tempesta. Dolcemente, con molto garbo, il Lazio si è preso il disturbo di accompagnarmi a Roma. Poche salite, eccetto quella di chiusura tappa, epica, che mi lascia sempre interdetta, e sul serio qualcuno deve spiegarmi perché tutti i paesini debbano trovarsi in cima a un cocuzzolo. Boschi, secco, erba paglia, oggi cascate e ci siamo fermati a bagnare cosce e piedi e fatica e infine nuvole di fumo, qualcosa brucia.
Il caldo brucia tutto anche le buone intenzioni, anche i più pregevoli propositi, tipo: adesso basta vesciche. E invece me ne cresce una sul mignolo. In punta. Brucia e batte ad ogni passo. La buco con ago e filo ma brucia e batte comunque. Il mio piede è tutto una garza. Il destro. Il sinistro è intonso. Aldo va come una scheggia. Normalmente ci vuole una settimana di assestamento per abituarsi a questi ritmi, ma sembra che per lui non funzioni così. È tremendamente incantevole averlo qui. Io sono in una fase di misteriosa incredulità. Mi sembra un’altra vita; era un’altra me quella che attraversava la Cisa, per esempio. Dove sono andate tutte queste centinaia di km? Dove andranno quando arriverò a Roma? Roma non è più un luogo astratto, la tappa finale, un moto verso. Roma ce l’ho dietro l’angolo, a due giorni di cammino. Devo solo allungare il braccio per toccarla, devo solo allungare il passo. Devo solo allungare il mio sguardo ed è là. Dove andranno a finire tutte quelle centinaia di km quando sarò arrivata? Come ci si ferma? Come si conclude un cammino? Dovrei saperlo, ne ho fatti tanti. Ma non lo so. Questo è stato diversissimo da tutti gli altri. Non paragonabile in nessun modo. Unico di forma e sostanza. Unico in grazia e durezza.
Ora è l’attesa. Attendo.