San Quirico d’Orcia – Radicofani
C’è sempre una tappa in ogni cammino. La tappa impossibile, delirante, inaffrontabile. La tappa che ti prosciuga, ti strema, ti fa impazzire, ti misura. C’è sempre. A volta all’inizio, a volte alla fine, oppure, a volte, al ventesimo giorno. Oggi, la mia personale battaglia. Al ventesimo giorno di questa via Francigena.
Mi sono svegliata alle 4, alle 5 stavo già camminando. Ho oltrepassato Bagno Vignoni, con la sua piazza d’acqua, che sembra un raccoglitore di speranze e ho gettato anche la mia: arrivare in fretta, arrivare presto.
Ma era una speranza sproporzionata, inadeguata, piuttosto irrazionale, rispetto a un vero troppo vero che parlava chiaro in ordine di tempo, spazi e temperature. 32 km, 40 gradi. Non sperare, cammina, sembra suggerire la strada.
E lo faccio, accogliendo le mastodontiche colline della Val d’Orcia, che raccontano di solitudine e coraggio, magnificenza e crudezza. E i casolari sembrano lì solo per suggerire una timida presenza umana, senno sarebbe solo natura. Natura e basta. Natura che ti ubriaca e spaventa, consola e ammazza.
Verso il ventesimo km ho la nausea per il caldo e il sonno. E la fatica fisica mi riempie di amarissimo stupore. Così perentoria, così tiranna. Per km e km è in corso un dialogo incessante tra il mio corpo e la mia testa: potresti prendere un autobus…oppure potresti continuare a camminare …oppure l’autostop…oppure continuare a cammina e stare calma…oppure rinunciare…oppure non farlo…oppure credere in te…oppure non crederci.
Ma dai cretina, ci sono 40 gradi, non respiri, boccheggi, ma cosa fai? Basta così, fermati. È tutta una salita, è tutta sterrata, non c’è ombra.
Nell’ultimo tratto urlo, butto i bastoni a terra. Piango due volte. Per fortuna faccio una deviazione sulla provinciale recuperando qualche km e bevo avidamente ad ogni fontana, bagnando la testa, lasciandola rinsavire sotto l’acqua che scorre.
Arrivo dopo 9 ore e 30 minuti.
Oggi, ventesimo giorno di cammino, ho iniziato a camminare alle 5, ho finito alle 14 e 30. E non so come, giuro che non lo so, ma sono arrivata. Sono l’ultima. Non riesco nemmeno ad avvicinarmi agli altri (siamo un gruppetto di 10 persone, sempre gli stessi, siamo quelli che vanno a Roma). Non voglio dire una parola a nessuno, non riesco nemmeno a gioire ( non ora, ma poi ci riusciró). La metà di loro ha fatto l’autostop o ha preso il bus ( e a ragione).
Mi dice Oliver: vedi, devi essere fiera di te, devi essere orgogliosa per quello che hai fatto. Io non lo so cosa sento, a dir la verità. Non direi orgoglio, piuttosto stupore ma non più amarissimo. Dolcissimo stupore. E riconoscenza verso il mio corpo e verso la mia testa che a un certo punto hanno smesso di litigare e all’unisono hanno detto “ce la fai”. E così è stato: ce l’ho fatta.