
Sto lavando la mia tazza nell’ostello a San Pietroburgo; parlo con un ragazzo argentino.
Lei mi osserva dal tavolo, con la coda dell’occhio vedo che mi sorride. Si alza si avvicina, indica la mia faccia e apre le mani come farebbe un bambino per dire: “Ed ora magia! Scompare e riappare!”
Lei, una splendida babushka russa, nel suo grembiule che l’avvolge dalle spalle fino ai piedi, coi suoi capelli screziati raccolti in una lunga treccia. Il nome e la provenienza sono informazioni che si riuscirebbero a condividere persino con un extra-terrestre, a discapito di qualsiasi barriera linguistica. E se uno ci pensa, a quel punto, tra le mani, possiedi già una fetta di storia rilevante della persona che hai di fronte. “Ah, Patrizia!” dice e lo dice con una tenerezza che sembra quasi affetto. Una coperta di lana, un camino acceso, un tè bollente scalderebbero meno di quanto lei sappia fare. “So di te” sembra dire. “Ti ho capito”. Si alza la figlia, cercando di tradurre il resto, le altre parole che vorrei ma non posso comprendere e che Marina continua a elargire copiosamente.
E alla fine con un inglese un po’ claudicante arrivano al punto. “Patrizia all sun in face and joyful”, che suona più o meno così: Patrizia tutto sole in faccia e gioiosa.

Il terzo giorno a San Pietroburgo sono colta da una portentosa euforia. Finalmente risolvo un problema che mi stava attanagliando dall’inizio del viaggio: le scarpe acquistate appositamente prima della partenza, stavano conducendo i miei piedi verso una lenta, progressiva e metodica distruzione, e io so quanto la salute fisica dei miei piedi coincida con la mia salute psichica: se loro non funzionano io non posso proseguire. Se dovessi fare del mio corpo metafora, direi che i piedi sono il viaggio, non le spalle – che portano la mia casa zaino – e nemmeno il cuore – che porta tutto il resto.
Con un paio di economiche scarpe nuove, non posso fare a meno di ridere, di riversarmi frizzante ed estasiata sulla prospettiva Nevskij, lasciandomi sulla sinistra la splendida cattedrale di Kazan (una piccola San Pietro mi aveva detto Marina, e in effetti il suo colonnato non può non ricordare, in versione ridotta, quello magnifico del Bernini).

Ma basta poco e a distanza di un tempo ridicolo, misero, seduta in un angolo della Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato devo piangere e non agilmente – come uno avrebbe il sacrosanto diritto di fare – visto che non c’è modo di abbassare il mento e chiudere la bocca. Non c’è modo di smettere di guardare in su, verso l’alto. La chiesa interamente rivestita di mosaici, è una stilettata. Ferisce.

Non so cosa stia succedendo. Non so se sono io o se è lei. Ma questa città ha, a rotazione, il mio pianto e il mio riso. È la sua opulenza forse, il barocco del parco Peterhof, oro e fontane e marmi, è il neoclassico di enormi edifici che si susseguono senza soluzione di continuità, sono i canali, la piazza immensa, la fortezza di Pietro e Paolo. È il fatto che nel troppo grande soffoco, ma quando riemergo mi rimbambisce la sua bellezza, mi inebria, mi stordisce. O forse sono solo stanca. E ho bisogno di almeno un giorno di riposo.

C’è stato un tempo in cui avrei voluto essere sempre e soltanto “Patrizia tutto sole in faccia e gioiosa”, ma la verità è che ora mi piace anche la versione di me in burrasca, spaccata in due da temporali, tormente e secchiate di grandine. È la parte verso la quale, ora, ho smesso di combattere. È quella che forse, più di tutte, mi intenerisce, perché anche applicandomi non ho saputo domarla o quietarla o darle pace.
Io e San Pietroburgo, in tal senso, siamo uguali. Anche lei, da un momento all’altro, ti piove addosso, incapace di preavviso, incapace di garbo, incapace di domarsi, quietarsi, darsi pace. E in stazione, alle 23:30, per non perdere il primo treno di quella tratta mitica – mostro sacro per qualsiasi viaggiatore – che prende il nome di transiberiana, ci arrivo trafelata, spossata, con 2 sacchetti della spazzatura raffazzonati sul mio corpo e sul mio zaino, perché il mio kway, stavolta non sarebbe bastato.