ADESEMPIOPARTIRE

Risposta singola a domande multiple

piazza rossa, Mosca
Uno dice Mosca, Piazza Rossa, Cremlino.
Uno dice cattedrale di San Basilio, Teatro Bolshoi, giardini di Alessandro.
Io lo dicevo molti anni fa, sfogliando i libri di storia dell’arte, l’Argan, presumibilmente. Provando un’acuta fascinazione per la risoluzione di quegli spazi, per il rigore della piazza e per la follia delirante e magnifica, sul lato opposto, della cattedrale. Pensandole come cose esotiche, inaccessibili, proibitive.
Anche dopo, anche quando il mio viaggiare si è spinto molto più lontano, geograficamente parlando, Mosca restava un posto ovattato, mitico, destinato all’incanto che per sua natura non può essere conoscenza.
Sarà per questo che ora, percorrendo, abbellita a festa, con luci e lustrini che scendono dall’alto, sono tesa come una corda di violino: tra pochi metri mi troverò nel suo cuore. Nel cuore di Mosca.
Nikolskaya Street, Mosca
Lei è spalancata, desiderosa di farsi vedere. Lei mi fa venire le vertigini. Mi fa scoppiare il cuore e la testa e anche l’incanto: la realtà di questo posto ha soverchiato l’aspettativa. Tengo una mano sullo stomaco, come se avessi ricevuto un pugno, oppure sono farfalle? Mi siedo per terra nel centro della piazza rossa.
Resto lì.
Perché in momenti come questi non è che ci sia molto altro da fare. Bisogna restare.
San Basilio, Mosca
I giorni a Mosca sono stati intensi, densi, frenetici, ma non mi hanno stremato. Non mi sono mai sentita soccombere, come spesso mi capita nelle grandi metropoli. È tutto talmente voluminoso, esteso, da far sembrare poche le persone in circolazione. Il marciapiedi e la strada, dove su sei o più corsie sfrecciano – a velocità inaudita – le macchine, sono mondi paralleli, destinati a non incontrarsi. È una città fatta per camminare. È una città di piazze, di vie pedonali. Le stazioni della metro sono opere d’arte, le Cattedrali all’interno del Cremlino un privilegio. La vita di Ivan il Terribile – che scopro essere nato nel mio stesso giorno – diventa quasi un chiodo fisso. Il parco Gor’kij ricorda di prendere fiato, di respirare, di sdraiarsi su un prato, su una panchina, salutare un cigno, osservare l’umanità sui pedalò dentro a laghetti artificiali.
parco Gor’kij, Mosca
Una signora seduta poco distante da me si sta mettendo uno smalto blu. Si vede che le piace molto. Si vede dal modo in cui si guarda ammirata le mani, da come scopre una nuova e inaspettata dinamicità nelle sue dita, leggiadre come libellule.
Mi parla. Le rispondo in inglese. Non capisco signora, mi spiace. Fa un movimento con la testa come per dire “ Ah…pazienza” e sarà forse in quel preciso istante che prende la decisione. In fondo non le importa…non le importa affatto. Continua per circa un quarto d’ora a raccontarmi la sua versione di quel giorno di sole, di smalto blu, di dita libellule e chissà di cos’altro ancora.
E. è italiano. Il sorriso è bello, gli occhi anche, ma entrambi sembrano spenti.
E. ha un dolore. Me lo racconta. Me lo racconta quasi subito, appena dopo il “ciao” forse addirittura prima del “come ti chiami?”. Perché se è vero che ogni dolore è diverso da un altro, è altrettanto vero che l’urgenza di essere espressi li accomuna tutti.
Ci sono pene che puoi raccontare solo a due categorie di persone: un amico intimo e un estraneo. Stranamente ti affidi ai consigli di entrambi. A entrambi sei pronto a rivelarne i dettagli. Da entrambi cercherai conforto e comprensione e certamente un modo. Un modo per farlo passare, per farlo smettere di fare così male.
Quando ti trovi nel ruolo di amico intimo o estraneo, più di quello che sai (che hai sperimentato, come tutti, quand’eri dall’altra parte della barricata), più dell’empatia che puoi, più del conforto che sei disposto ad offrire, più di tutto servono le tue orecchie.
Che tu parli la stessa lingua, oppure no.
Serve che ti metti in ascolto.
Che resti lì.
Perché in momenti come quelli non è che ci sia molto altro da fare. Bisogna restare.
Cremlino, Mosca