Io so come si trova l’acqua.
Lo so per davvero, non dico bugie.
Me l’hai insegnato il mio amico “elfo silvano” Giacomo.
Io voglio fare la rabdomante. Lo so che non è una professione.
Lo so che bisognerebbe – secondo la definizione del dizionario, perlomeno- possedere ed esercitare una qualche facoltà divinatoria.
Lo so che quindi, anche se fosse una professione, non avendo alcuna facoltà divinatoria, non potrei, in ogni caso, praticarla. Neanche con la partita iva, pagando regolarmente le tasse.
Eppure l’acqua io l’ho trovata.
“Giacomo”
“Sì”
“Mi insegni a usare la Gopro? Lo sai che faccio schifo con la tecnologia. Ma me l’hanno regalata per il mio viaggio intorno al mondo e vorrei riprenderne tanto, di mondo”
“Parti quindi?”
“Sì, il 15 gennaio. Vengo da te, sui monti. Porto un pollo alla cacciatora e delle patate al forno. Va bene?”
“Sì, va bene”
E’ una di quelle giornate benedette. 20 gradi a novembre, con le guance calde dietro al finestrino. Il sole lo mastico e lo mando giù. Mi metto a cantare forte e male, e alla fine mi brucia la gola; ma voglio dire, ho mangiato il sole: o si canta così, o non si canta proprio. La Cisa è sempre troppo cara e troppo bella. Di lato ho le montagne, sotto il torrente. E al casello pago 6 euro. Siete matti voi.
Arrivo a casa di Giacomo che è già mezzogiorno.
Questa casa con tanto legno e tante stanze. Col divano rosso, sul quale ho dormito molte volte, infilata nel mio sacco a pelo che sapeva di cenere e fumo della stufa. Questa casa con la cucina fatta su misura da suo padre, dove Maria mi ha preparato 2000 thè e dove sono volati hamburger direttamente nelle nostre bocche affamate. Questa casa colorata, saggia, buona, accogliente, viva, creativa, dove ci sono strumenti musicali e foto e disegni e libri ovunque.
L’elfo silvano si è messo in una posa che, ti prego, non ti spostare da lì ameno per le prossime 2 ore. E’ un personaggio di Caravaggio. La luce a picco su di lui, non riconosco i suoi contorni, forse perché è ancora più magro o ancora più elfo dell’ultima volta che ci siamo visti. E’ girato di spalle, suona la chitarra.
Finisce con calma. Si gira e mi fa un sorrisone.
“Lo sai che mio zio mi ha insegnato a trovare l’acqua?”
“Non è vero”
“Sì, è vero”
“E perché ha aspettato così tanto a insegnartelo?”
“Aspettava che glielo chiedessi, credo”
La faccenda è semplice.
Si prende del fil di ferro lungo circa due spanne e un po’, e poi si piega, creando un manico.
Un bastoncino per ogni mano.
Le mani al petto.
L’impugnatura morbida.
Le mani al cuore, per carità; la postura rigida.
“E l’acqua si trova?”
“Ieri ci abbiamo provato. ma c’era vento”
Oggi ci riproviamo, caro mio. Oggi il vento non c’è.
Stiamo finendo il pollo con le patate, mi ha già insegnato a usare la Gopro. Ho preso appunti. Mi sento inadeguata, vorrei essere certa che non cancellerò, per sbaglio, le riprese di Cuzco o Buenos Aires o Bali, ma questa certezza non ce l’ho. Anzi, sono quasi certa del contrario.
Ci capisco niente.
Suona il campanello. Il terzo elemento di questa improvvisata brigata è finalmente arrivato.
“Lei è Patrizia”
“Lui è Mario”
“Ciao Mario”
“Piacere Patrizia”
Bene. E adesso? Adesso inizia l’avventura vera e propria e la mia iniziazione come rabdomante.
Mario sta preparando un libro sulle case abbandonate e poco distante da dove siamo noi ce n’è una.
Andiamo quindi? Bè sì, certo che andiamo.
Che se non siamo qui sui monti per vivere delle avventure, cosa siamo qui a fare?
L’elfo silvano ci conduce in un bosco. E’ tutta salita. il pranzo finito 10 minuti fa non mi aiuta, rallenta i miei passi, appesantisce i miei movimenti e i miei pensieri; mentre gli altri due si inerpicano come giovani stambecchi gioiosi. Ma non li perdo e non mi distacco. Passiamo un corso d’acqua. Le mie suole sono un po’ troppo lisce, il mio equilibrio un po’ troppo precario, il mio fiato un po’ troppo corto. Ma la salita – indovinate un po’? – finisce.
La carcassa di un’auto ci accoglie. Ma che ci fai qui, auto? Come sei arrivata? Non c’è una strada per te. Non puoi aver attraversato il ruscello. L’auto ha volato, mi dico. Me lo dico, perché questa è un’avventura e decido che posso pensare quello che mi pare; e più le cose sono strambe e più ci credo.
E la casa? Eccola. Ha volato pure lei. Non ci credo che qualcuno, queste pietre, le ha portate fin qui, sulle spalle, con le mani, tra le braccia. Contrarsi, piegarsi, incurvarsi a favore di legno, cemento, coppi e ferro. No. Non è andata così veramente.
Hanno contato fino a 3. Uno, due, tre! E la casa è comparsa.
Questa casa, così diversa da quella di Giacomo, dove mi trovavo non più di un’ora fa. Questa casa che vomita storie da tutte le parti. Alcune sono perdute, altre ce le ha scritte addosso, le respiro dalle narici, mentre ce le mostra con una sincerità docile, cruda, fatta di molte sbavature e polvere e travi che cadono da tutte le parti, e brandelli di carta da parati e porte smembrate e buchi grossi così.
Un coperchio per ogni pentola. Un coltello per ogni tagliere e il 3 di bastoni che è stato strozzato da una briscola piccola e insignificante, e i piatti che una mano ha lavato, la stessa che ha cucinato la pastasciutta più buona che si possa immaginare, con i funghi, di certo. E le persone, che sono famiglia, che si sono sedute vicine per ascoltare il tg. Vicini per commentare il brutto e il bello. Il brutto e il bello di allora, che, ci scommetto, non è molto differente dal brutto e il bello di ora.
E una scatola di latta, dalla quale emergono fili, con cui sono stati cuciti gli orli di qualche pantalone di qualche uomo che doveva sfamare qualche vacca e qualche oca o gallina. E un paio di scarpe da corsa che non hanno niente a che fare con gli stivali della stalla e che raccontano di un ragazzo anarchico e buono come il pane, che aveva un gufo e che correva in mezzo ai boschi, tra i rami che graffiano le cosce e il tramonto che ti cade addosso.
Per entrare nelle case degli altri devi dire “Permesso”. E anche per entrare nelle vite degli altri, se è per questo. Piano, sottovoce, senza far rumore.
Esco. Mi metto nel giardino, che sono per lo più erbacce e ortiche, e rovi. Mi posiziono perpendicolare al lavatoio, che si trova più a valle.
I bastoncini li tengo così come mi è stato insegnato e cammino con gli occhi sbarrati, di chi aspetta una magia. Ed eccola, la magia. i bastoncini si incrociano formando una X. Esattamente dove passa l’acqua sottoterra e sgorga a 10 metri di distanza da me. E la forza del movimento è netta, decisa; una calamita che spinge i due bastoncini a riabbracciarsi, a baciarsi, a stare insieme come chi si ama forte, per davvero. Lo fa anche Mario, e succede lo stesso. Lo fa anche Giacomo e ancora, di nuovo, stesso epilogo. Sono fuori di me dallo stupore. Passo diverso tempo a camminare come uno zombie dei monti e ogni volta che i bastoncini si incrociano, mi batte forte il cuore e mi esce un “Ohhhhh”
“Qual è la spiegazione scientifica di questo fenomeno?”
“Non c’è” mi risponde Giacomo.
La cosa a lui infastidisce. A me no.
A me queste cose piacciono così, senza spiegazione.
Cos’è che mi vuoi spiegare? Cos’è che devo capire? Che cosa?
Mentre sono qui, in mezzo ai boschi, con una casa massiccia e malmessa che sgomita fuori il suo passato a destra e a manca, io penso, che tante volte, la spiegazione non c’è.
Proprio non c’è. Basta. Smettila di chiedere. Non verrà nessuno a prenderti a male parole, se non sai spiegare ciò che non si può spiegare.
Mancano meno di due mesi alla mia partenza, al mio giro del mondo in solitaria, alla scoperta della Nuova Zelanda, del Vietnam, del Cile, di Panama e di tanti altri posti, che anche solo immaginarli mi fa tremare. Chissà quante volte accadranno cose di cui non saprò dare una spiegazione. Quante volte sarò impreparata. Quante volte non avrò il controllo. Quante volte 2+2 non farà 4. Quante volte non mi darò pace, vorrò capire. Quante volte, alla fine, dovrò accettare che non posso capire.
Le cose, a volte, accadono e basta. Nessuno verrà a prendermi a male parole, credo. Cosa che invece sarà fatta, mi viene da pensare, se smettessi di cercare. Se mi volessi sedere. Se alla magia non ci credessi più.
Esimersi dalla ricerca…questo no.
Rabdomanti di esperienze, bisogna essere.
Rabdomante di esperienze voglio essere.
Con i bastoncini in mano e gli occhi sbarrati in attesa di una magia, si deve stare.
Di un fatto eclatante, che dica: è questo il posto, è qui che devi cominciare a scavare!
O anche: Non è questo il posto, non è qui che devo scavare!
Col cuore che batte ogni volta che c’hai visto giusto, e l’acqua l’hai trovata.
Col cuore ferito ogni volta che c’hai visto sbagliato e l’acqua l’hai solo immaginata.
In ogni caso, mettersi alla ricerca è l’unica scelta possibile. O quello, o morire di sete.
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Canzone consigliata per la lettura: “La canzone dell’acqua” di E.Finardi