Un giorno, senza un motivo particolare, durante un qualsiasi pranzo di un qualsiasi lunedì-martedì-mercoledì-giovedì-o-venerdì, ho chiesto a mio padre se avesse dei rimpianti.
Ricordo di aver avvertito una profonda ansia, un senso di opprimente tensione, una fitta istantanea – nata e cresciuta nel tempo in cui ho articolato la domanda – mentre aspettavo, inquieta, la sua risposta.
Mio padre, all’epoca, avrà avuto 60 anni.
E io non volevo avesse rimpianti.
Non volevo che mi dicesse “Oh sì, non sai quanti!”
Non volevo che cominciasse a enumerare una serie di possibili (ormai impossibili) condizionali: avrei voluto fare questo, avrei voluto essere quest’altro, avrei potuto, avrei fatto meglio a.
Non volevo mi dicesse che si era sposato troppo giovane, che aveva avuto tre figli troppo in fretta, che aveva lavorato troppo per troppi anni, che in fondo in fondo non avrebbe voluto fare il geometra, che aveva investito troppa energia e sacrifici per costruire una casa grande in cui potessimo accogliere amici e parenti, che sarebbe stato meglio viaggiare e aspettare e rallentare e accelerare e andare a pescare e trasferirsi in Irlanda e non fare nulla e fare tutto.
Non volevo.
Alle persone che amiamo non auguriamo rimpianti.
Lui, ricordo, ha finito di masticare la bistecca; poi, molto serenamente, con una naturalezza e un candore che mi hanno commosso, ha risposto: “Solo uno, non conoscere le lingue”.
Il rimpianto di mio padre a 60 anni, l’unico per lui degno di nota, si riassumeva nel cruccio di non essere stato in grado di comunicare con tutte le persone incontrate nella sua vita.
Mi ha lasciato stecchita.
Mio padre ha vissuto e vive una vita che lo corrisponde. Non sono mancate frustrazioni, sconfitte, disillusioni, grandi errori: è stata ed è tuttora una vita, in tal senso, normale, ordinaria; ma assolutamente straordinaria se penso che ha fatto ciò che ha scelto, e ha scelto ciò che ha fatto.
Per comunicare ai miei genitori che avevo deciso di partire per fare il giro del mondo in solitaria, avevo diverse opzioni.
Poteva essere una cosa del tipo:
“Mamma mi passi l’acqua? Grazie..”
“Novità Patti? Tutto bene a casa?”
“Tutto bene sì..Ho pensato di cambiare le tende della camera..e poi devo andare alla riunione di condominio per decidere se si rifarà o meno lo stradello e…ah sì! Poi volevo dirvi: verso fine dicembre parto, mollo tutto e sto via un anno. L’idea è quella di passare da un Paese all’altro, da un continente all’altro..e, ovviamente, da sola. Buonissima questa orata!”
Non ho fatto così.
Sarebbe stato d’effetto. Molto teatrale, come piace a me, ma insomma, l’ho evitato.
Ho scritto invece una lunga lettera di 6 pagine (Poveretti! E non è neppure la prima volta. Ormai lo sanno che quando arriva una lettera sto per sganciare una bomba ).
Probabilmente sarebbe stato sufficiente dire: “Questo mi rende felice.”
La decisione era già stata presa e non cercavo il loro consenso (ho, ahimè, una certa età)
Eppure volevo capissero quanto di sensato c’è in questo desiderio così, apparentemente, insensato. Volevo comprendessero quanta responsabilità mi prendo in questo progetto così, apparentemente, irresponsabile. Volevo sapessero quanto necessito partire, quando apparentemente e ragionevolmente, potrei restare.
“Papà, quando ti ho fatto quella domanda, tu avevi circa 60 anni, io meno di 30. Tu avevi solo un rimpianto, io ne avevo già a decine. A d-e-c-i-n-e papà.”
Capisci, quante volte non mi sono stata fedele?
Alejandro Jodorowsky (quanto ma quanto ti amo!) spiega come nelle storielle popolari o addirittura nelle barzellette si celino grandi verità universali. Questa, che riporto – il più fedelmente possibile – l’ho ascoltata direttamente da lui, durante una conferenza a Lerici.
“Il tonto del villaggio compra 5 euro di peperoncini piccanti. Si siede sul ciglio della strada e inizia a mangiarli. Diventa paonazzo in viso, suda, respira a fatica, si contorce, ma persiste imperterrito a ingurgitarne, uno dopo l’altro. Si avvicina un uomo. “Cosa fai? Perché continui a mangiare i peperoncini? Non vedi che ti fanno male? ti stanno uccidendo!”
“Non sto mangiando i peperoncini” gli risponde il tonto “Mangio i miei 5 euro”
Sono i 5 euro, ci spiegava Jodo con quella faccia affabile e sorniona da nonno magico, ma sono anche gli anni in un’università che detesto e che mi porterà a fare un lavoro che odio e che non mi appaga, ma che in realtà non posso lasciare, perché già ho investito tutto questo tempo…Cosa faccio? mando tutto all’aria e ricomincio da capo?!
Oppure sono i 5 anni di relazione con qualcuno che non amiamo…ma ormai è così tanto tempo che stiamo insieme…abbiamo già comprato casa…è andata così”
E’ faticoso, laborioso, arduo, disagevole e così tremendamente difficile riuscire ad assomigliare il più possibile a sé stessi. Corrispondersi.
E’ che a volte manca l’immaginazione, dico io.
Manca l’idea di noi che riusciamo ad essere noi.
Manca la fantasia della vittoria. Permane la poca fantasia della sconfitta, con domande zuppe di insicurezza, che sembrano le macine che intingo nel tè la mattina.
Io? Proprio io? Proprio ma proprio io? Posso farlo? Ne sono in grado? Ma siamo sicuri?
Farò una cosa per arginare i momenti di sfiducia e scoramento, che ciclicamente mi colgono, riguardo la possibilità di riuscire ad essere davvero quello che voglio essere: ascolterò una che per anni è stata considerata matta fra i matti. Ascolterò la saggezza struggente di Alda:
“Dovrei chiedere scusa a me stessa per aver creduto di non essere abbastanza”
Note
- Alda è Alda Merini
- Nella foto un’opera di Banksy
- Ho scritto questo post ascoltando Hero dei “Family of the year” e consiglio di leggerlo ascoltando la stessa canzone, se vi va
- Grazie Boris