Patti…allora direi che tra un’ora ci siamo. Stiamo mangiando il secondo ora.
Cos’è?
Faraona
(Darei un braccio per mangiare la faraona, santocielo. Invece sono mesi che qui si mangia la prima sillaba, ma poi le altre due son ben diverse: GIO-LI)
Sei pronta per andare in Mondovisione?
Credo..Sono tanto emozionata, Mommi. Forse vado a bere un succo di maracuya qui davanti.
Sì, ottima idea, bevi il succo e stai tranquilla, andrà tutto bene. Ok?
Ok.
Non è che proprio vado in Mondovisione, però quello che sta per accadere è un collegamento in diretta Colombia-Italia. Hanno organizzato tutto loro (le persone belle che ho dall’altra parte dell’Oceano), parlato con i gestori del locale, posizionato un maxischermo, controllato il collegamento via skype. Questo hanno fatto le persone care dall’altra parte dell’oceano, perché io possa partecipare da lontano a ciò a cui non posso partecipare da vicino: Il matrimonio di due persone a cui voglio bene.
Problema di distanze. Problema di prospettive.
“Se mi avessero detto 15 anni fa, che 15 anni dopo, il Cianzo si sarebbe sposato e io non sarei stata al suo matrimonio, ma che addirittura mi sarei trovata a Medellin, in Colombia – città natale di Pablo Escobar, men che meno il più grande trafficante di droga di tutti i tempi – e per di più da sola, avrei pensata che quella, altro non poteva essere, che una delle tante fesserie che si dicono tra il soundcheck di un concerto e il concerto stesso”
Comincia così la robina che ho scritto e che leggerò (ossignorebenedetto) in “mondovisione” e che mi rigiro tra le mani mentre bevo il mio maracuya sottoforma di succo e il cameriere venezuelano mi chiede perché non mangio nulla. Ho lo stomaco in gola, ecco perché..mica per altro. I piatti colombiani li adoro (chiudiamo un occhio sul discorso fagioli..) ma quando l’emozione vince sulla fame vuol dire che sta succedendo qualcosa di impegnativo molto e che è meglio, davvero è meglio, arrendersi alla palese superiorità dell’ansia su qualsiasi altro stimolo vitale o non, e io lo farò.
E poi la faraona non l’avete, vero?
15 anni fa suonavo con lo sposo in questione e altri 4 scriteriati in giro per l’Italia. 6 anni di palchi, sui quali lanciavamo tutti i sentimenti del mondo, ma soprattutto la gioia di essere lì.
Dal palco vedi le persone che ti guardano, un po’ più sotto rispetto a dove sei tu e tu le guardi, le persone, un po’ più sopra; lì esattamente dove hanno posizionato gli strumenti e il microfono, con una visione inaspettatamente privilegiata per assimilare, in breve, come funziona il discorso bislacco della prospettiva; e ringraziare, primo fra tutti, a parer mio, Piero della Francesca con i suoi quadri e affreschi e la sua voglia matta di spiegarlo al mondo intero, che roba da restarci secchi fosse questo modo finalmente veritiero di guardare le cose. Quindi il discorso è semplice: su un palco, se sei in alto, la bella prospettiva fa sì che anche da lontano ti vedano mentre calpesti le assi sotto di te (insieme a tutti i sentimenti del mondo ma in primis la gioia smisurata di essere lì).
Al tempo, e anche più recentemente, non avevo inteso fino in fondo che molto, tantissimo, si risolvesse in quella parola…non palco…ma prospettiva, che ne chiama un’altra ( che poi son tre) della quale proprio non può fare a meno – che il bene che si vogliono quelle due, mammamia- Puntodivista
Quel che vedo io.
Quel che vedi tu.
Quel che ho visto io.
Mi sono alzata la mattina e fuori pioveva e quando sono scesa dal letto, ho sentito la sabbia della mia cabaña umida e molle mentre io sbirciavo dalla instabile porta in legno – incagliata nella sabbia stessa, che di chiudersi e lasciarti un briciolo di intimità non se ne parla manco per sogno – per assicurami che l’isola fosse esattamente come l’avevo lasciata il giorno precedente, e lo era. 190 passi per 133. Grande così. Meno no e neanche di più.
Questa è l’isola – nella quale sono ospitata- di proprietà dei Kuna, all’interno dell’arcipelago panamense di San Blas.
Loro, però, gli abitanti delle 387 isole, vogliono che si dica Guna Yala, perché Panama c’entra niente. Sono indipendenti, hanno loro leggi, loro scuole e quando arrivi nelle loro terre devi mostrare il passaporto originale, mica la fotocopia che sennò ti tocca tornare indietro.
Nell’isola dove siamo ospitati noi, vivono circa 5 famiglie.
In alcune anche una sola famiglia, poi ci sono le isole più grandi dove invece c’è molta più gente e fantasia e scuole, e medici, ecc.
190 passi da dove hanno sistemato i bagni e l’altra punta dell’isola. In mezzo il generatore, le palme, le nostre cabañas, il lungo tavolo dove mangiamo, le 4/5 cabañas delle famiglie locali, una rete per giocare a beach volley qualche amaca e poi, lo giuro, di nuovo mare.
Nei tre giorni che ci fermiamo a San Blas di isole ne vediamo parecchie e tutte ridotte all’essenza minima di sabbia, palme, mare. Come le vignette delle parole crociate, dove c’è sempre quel povero cristo che aspetta che qualcuno lo venga a salvare. Ecco, così.
Una natura di una bellezza atroce e inverosimile e dall’altra parte una vita ridotta dentro passi 190 e passi 133. Privi di internet, di contatti esterni, di attività diverse dal pulire i cocchi, tessere, sistemare l’isola, cucinare.
E la strada è il mare, e i tuoi vicini non vivono in quartieri, ma in altre isole e la sera non è permesso di andare a trovarli, quando il sole se ne va a dormire, ci vai anche tu. Oppure si beve. In tutti i rituali e le iniziazioni l’alcol è sempre l’ospite d’onore. Stona, mi viene da pensare. Ma forse no. Sono io che vorrei l’uomo sazio della sola natura, ma invece l’uomo non è sazio per natura; e qui la resistenza fisica, la bontà d’animo, la giustezza della tua persona (in pratica la materia di cui sei forgiato) si misura con la capacità di assumere alcol senza morirci, così come mi racconta la nostra guida colombiana.
Una volta accettato dalla comunità kuna, una sera l’hanno convocato. Gli hanno messo un bicchiere sotto il naso (poi riempito tante e tante e troppe volte) e gli hanno detto: Bevi. Abbiamo bisogno di capire. E loro lo hanno accompagnato in questa avventura, bevendo quanto lui senza batter ciglio e le più resistenti, mi dice, sono le donne.
E’ così. Prospettive di vite di mare/nel mare, dove l’acqua salata è la strada, le onde i semafori, i pesci i vigili e le altre isole sono quartieri, e il pavimento è sabbia e gli uccelli ti svegliano e dagli alberi, ogni 3×3 cade un cocco, versus la mia vita a Parma dove la strada è fatta di cemento e rotonde e semafori e strisce pedonali, e negli altri quartieri ci arrivo a piedi e la mia casa ha le mattonelle, e mi dà il buongiorno la sveglia (stramaledetta) e dagli alberi cadono le foglie semmai, ma non sempre, solo a volte.
Sono arrivata in Colombia su un aereo piccino, partendo da un aeroporto piccino in una sala d’aspetto piccina con un freddo da aria condizionato tutto l’opposto di piccino.
Avevo un paio di pantaloncini corti che ormai cosa vuoi farci, il bagaglio l’hai bello che imbarcato e quindi le gambe si dovranno pur rassegnare all’ipotermia, ma la giacca a vento la chiudo fin sopra la testa che esca fuori solo una fessurina di occhi, giusto per osservare com’è il mondo da lassù, dopo mesi che mi muovo solo ed esclusivamente con gli autobus e il Messico e tutto il Centro America me lo sono attraversata così.
Avrei fatto a meno di abbandonare il collaudato, economico, sfinente, sballottante movimento via terra, ma una volta che arrivi alla selva del Darién, che divide Panama dalla Colombia non c’è modo di passare.
Quella intricata realtà vegetale racchiude tanti di quei segreti che una vita intera non basta. Una terra di nessuno e di tutti, di disastri, di contrabbando di droga, di gente più morta che viva che cerca di attraversarla, la selva, per scappare da qualcosa o da qualcuno. Una terra tristemente nota, zeppa di storie mitiche e quasi nessuna a lieto fine, la cui verità la sanno solo le radici degli alberi e gli animali, che sopra e sotto e in mezzo agli alberi ci vivono.
Ci ho pensato mentre ero sull’aereo con le gambe ghiaccioli, e Panama City diventava piccola piccola, e io sempre più grande e grande; come se entrambe fossimo l’Alice di Carroll alle prese con bottiglie che recitano “Bevimi” e biscotti che suggeriscono “Mangiami”. Più piccolo, più grande. Più vicino, più lontano. Più in basso, più in alto.
Prospettive. Ancora. Sempre, no?
Lì, nella mia poltroncina aerea me lo sono detta, che cosa strepitosa se questo punto di vista fortunato lo riservassimo pure allo nostra vita..che lungimiranza si avrebbe guardando dietro quella fessurina di occhi. Ma che difficile invece, sollevarsi per un attimo, ad esempio, dai sentimenti che attanagliano che fanno vedere tutto bianco o nero, ma privo di forma con un astigmatismo demente e ottuso.
Dall’alto la visione d’insieme verrebbe a prenderci per mano, a consolarci, a dirci che ora sì, ad esempio, siamo arrabbiati o frustrati o confusi o impressionati o stanchi, ma se ci guardiamo dall’alto, ci spogliamo del sentimento, senza negarlo. Perché no, non ti faccio la scortesia di negarti, Sig Sentimento. Grazie, perché adesso che ci sei bisogna pure che ci confrontiamo noi due; grazie perché mi obblighi a vestirmi di te, anche se quest’abito non è su misura e tira e stringe da tutte le parti. Adesso, Sentimento, mi faccio un giro in alto per guardarti da un’altra prospettiva, per essere certa che nella arzigogolata cartina che è una città che porta il mio nome, passerai, come passano gli autobus, i metro o i tassì.
Tipo ora che il cuore mi batte forte, perché vedrò i miei amici già sposi e tante delle persone che amo – e che mi mancano da MO RI RE – al di là dell’oceano, tutte insieme a festeggiare, tutte insieme.. e no, non è che batte è che mi scoppia proprio, ma comunque, qualunque cosa sia, ecco, passerà.
Siamo al dolce Patti
(cosa darei per mangiare una fetta di quella torta. Una torta che non ha niente a che fare coi fagioli, ne sono certa, potrei scommetterci tutto quello che ho – il mio zaino – che di fagioli in quella torta non ce n’è manco l’ombra. Ci sarà il cioccolato magari, o la panna, o la frutta, o il pan di spagna, ma non i fagioli..loro no.)
Va bene Mommi, quindi più o meno…
Un quarto d’ora
Ok
Com’era il succo?
Ottimo. La faraona?
Anche. A dopo. Tranquilla eh.
Si, va bene.
Medellin una città che funziona bene, dove la poesia fa l’amore col caos. Dove nel pieno centro convulso e congestionato e a tratti ammorbante, puoi prendere una teleferica che ti porta prima sulle periferie sbocciate sui fianchi della montagna – le case di mattoni, prive di intonaco, una distesa arancione, nella quale le tegole sono un lusso di pochi e la lamiera arrugginita o lucente è quotidianità di molti e le case si spingono e sgomitano, si sorpassano, cedono, risorgono, come capita in qualsiasi Paese di questa tanto amata parte di mondo- per arrivare fino al Parque Arvì.
Il Parco che si distende sotto di me, con i suoi pini e il suo verde sincero e il sole e il cielo puliti, vulnerabili, semplici, senza nessun segreto -apparente- l’uno per l’altro
E quando arrivo in alto, c’è un mercato di prodotti locali. C’è qualcosa di totalmente rassicurante e confortante quassù che mi sento folgorata da una pace tutt’altro che intangibile, ma dalle forme più che precise: è la sciarpa di cotone blu che ho comprato da una signora col rossetto rosso, sono le more e la frutta che vendono in cestini e che abbiamo appena raccolto, sai?
è l’ombra che cerco dopo aver camminato nel bosco per due ore, è il fungo velenoso che non ho toccato, la farfalla azzurra enorme che è venuta a dirmi ciao, è l’empanada di patate, sono fiori che la guida ha colto dicendomi: Tieni, Magia, è il muschio spugnoso che ho sfiorato, i 10 minuti in silenzio ascoltando il vento e consegnadogli, al vento, tanti pensieri da portar via, via con te, portali lontanooooo, lontanooooo, shhhhhhh, come ti agiti vento caro, portali via che se non puoi farlo tu, chi può?,
Riprendo la teleferica, e scendo nel centro. E’ quasi il tramonto e mi fermo molto tempo osservando gli adiposi corpi di Botero, posizionati nella piazza centrale, il cui bronzo riflette le ultime luci del giorno in uno spettacolo che ne ha del soprannaturale. Mi sembrano tutte divinità cadute da non so quale cielo. La carnalità massiccia espressa in poche linee, le stesse con le quali si possono disegnare montagne e mappamondi, palloni, mongolfiere ma che qui, sono cosce, polpacci, spalle, glutei, fianchi. Questa è una obesità ordinata, controllata. Monumentale, non cascante. Morbida, non molle. Esuberante non flaccida.
Le trovo mostruosamente affascinanti.
Una prospettiva di corpo esagerato e bellissimo. Se non fosse bronzo me le morderei tutte, dalla prima all’ultima.
Sono così convinte le statue di Botero, impassibili, inespressive. Così poco preoccupate. Senza il minimo desiderio di andare in palestra, cristallizzate nell’eterna accettazione di quello che sono.
Loro in alto, io in basso.
Loro che insegnano, io che apprendo.
Che belli i corpi. Tutti i corpi. La gente che sta bene nel proprio corpo ha un’espressione diversa. Glielo leggi negli occhi. Io lo leggo in tanti occhi qui in Colombia, dove tutto è attillato ed esposto e se ti piace è così, senno sto bene uguale, forse anche di più.
Al museo di Botero ci arrivo tardi sono le 6 di sera. La signora alla cassa la riconosco. Il giorno prima le avevo fatto un sacco di domande su cosavederecosafare a Medellin. Mi riconosce anche lei, mi fa un sorrisone e mi dice vai…hai solo un’ora. Non mi fa pagare il biglietto. Rimango senza parole. Le chiedo, Ma perché? E lei, Perché sì.
Mi sbronzo di Botero. Prima statue, poi quadri dai colori quasi sempre primari e uno non si può immaginare quanto rosa serva per il corpo di una donna enorme…comunque molto.
Stiamo chiamando gli sposi. Sei pronta?
Sì, sono davanti al computer.
Ok. ti scrivo quando chiamare..
…
Adesso Patti. Chiama!
Si dice che le pietre siano poderose. E io ci credo. Si dice che le pietre ti scelgano e ti attraggano. A me è successo con l’ossidiana nera nera, incontrata nella foresta in Messico e anche col quarzo rosa rosa a Panama. Non c’era altra possibilità. Dovevano venire via con me e ci sono venute.
Ma la pietra del Peñon, vicino a Guatapé è qualcosa al di là da ogni immaginazione.
Un monolite di 220 metri, una bestia di Pietra che i movimenti della terra hanno vomitato fuori. Un mostro granitico di un fascino conturbante. Da quando la vedo sull’autobus non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Sotto l’embalse, un lago con lunghe lingue di terra, ricoperte da un praticello all’inglese che pare finto, alberi, fiori. Sono evidentemente sconvolta. Dal mio ostello la visuale è impressionante. La pietra alla mia sinistra, sotto il lago.
Si può salire, sulla pietra. Hanno creato una cerniera di cemento, che assomiglia in realtà a un corsetto, e che si arrampica fino in cima. 740 gradini. Su, su, su, ancora su e su e su e indovina? Su.
Uno dopo l’altro, mentre il paesaggio sotto si fa ampio fino ad arrivare in cima boccheggiando, sudando e abbandonandosi alla visione a 360° di tutto quello che c’è intorno.
E’ uno spettacolo per cui due occhi non bastano. Mi sento confusa e lucida allo stesso tempo e mi viene tanto da ridere. Non sorridere, ridere.
Ridere da sola. Ridere del bello, quando è Boteriano quando è immenso.
Mi sento forte davanti a questo miscuglio di acqua e terra perfetto e ancora sento quel senso di pace sublime della prospettiva dall’alto.
Respiro profondamente. Penso a tutto. Penso a niente.
Lascio correre, trattengo.
Che cosa strana sta facendo la Colombia con me, che vuole che salga, da quando sono arrivata. Che vuole che sia capace di avere visioni d’insieme, di aprire lo sguardo, di cambiare per un po’ il mio punto di vista tanto collaudato che di sorprese non me ne riserva più. Mi fan venire voglia di essere migliore, oggi, questa pietra, questi gradini, quest’acqua. Mi fan venire voglia di mollare i miei riconoscibili meccanismi e di trovarne altri. Altri nuovi. Altri inaspettati. Mi fan venire voglia di chiamare un amico che mi conosce bene…tipo Aldo e dirgli sai quella cosa che faccio sempre? Quell’atteggiamento mio così riconoscibile e riconosciuto? Ecco, adesso non lo voglio fare più. Voglio farne un altro che non ho fatto mai. Voglio provare un sentimento nuovo, affrontare una situazione dall’alto. Risolverla con occhi di terra e mare e pietra.
Mi sento come innamorata. Le pietre sì, sono davvero poderose.
Poi Guatapé… los zócalos, la parte inferiore della facciata delle case dipinto o in bassorilievo. Non c’è uno spillo in questo paese che non sia colorato. Colore pieno, duro, assoluto.
Perché così tanti colori, Signore? chiedo
Perché è bello il colore, no?
Sì. Certo che lo è.
Nella piazzetta mi prendo un tè. Cammino come se fossi dentro al migliore dei sogni, tocco le pareti, mi metto a cantare nelle vie più solitarie e penso infine: io so, lo so per certo, che qui mi posso fermare per mesi e mesi e mesi e quindi il giorno dopo, inaspettatamente, me ne vado.
Guatapé poteva trasformarsi in casa, ma io l’avevo appena dichiarato sulla sua pietra che quasi è un altare: un meccanismo nuovo, non mio. E così ho fatto, ho preferito muovermi, quando il mio meccanismo era fermarmi. La pietra l’ho salutata dall’autobus.
Io e te ci rivediamo presto, cosa credi?
Si si…lo so bene. Presto. Ma adesso vado via.
Sì. Adesso, è giusto, vai via.
La continuo a guardare dall’autobus provando sempre e comunque la stessa inspiegabile inquietudine buona. E ancora penso: sono innamorata di questo posto.
Una delle ultime cose che ho visto di Guatapé è stato il cimitero. Appena posso ci vado nei cimiteri. Sono uno scorcio imperdibile di un posto. Il cimitero di Guatapé me lo immaginavo pieno zeppo di fiori e colori. E’ totalmente bianco invece. E’ solo esclusivamente, definitivamente, bianco. Ci sono alberi ma non ci sono fiori.
E’ molto più semplice la morte, penso, che lavora per sottrazione. Nient’ altro da aggiungere. Nessuno orpello. Mi fermo mezz’ora. Leggo i nomi, faccio il solletico alla barba di alberi strani, sbircio dentro la chiesetta e finalmente vado via.
Verso Jardin, ultima tappa del dipartimento di Antiochia.
Grazie al cielo esiste Jardin. Per lunga parte del tragitto alla mia sinistra la cordigliera orientale e il fiume. Poi arriviamo nella piazza. La più accogliente piazza in cui abbia posato il mio cuore.
Un arcobaleno di seggioline e tavolini colorati con la chiesa bianca e le rose e qui seduta leggo l’ultima parte di “L’amore ai tempi del colera” che proprio in Colombia volevo leggere. E ho aspettato, Gabriel, ho aspettato di capirti da qui.
Questo posto non ha barattato la sua identità a favore del turismo. I bar che circondano la piazza suonano valzer in tre quarti, melanconici, antichi, divini e le persona prendono il caffè tenendo al guinzaglio il proprio cavallo, e io stavolta mi concedo il lusso di un hotel, perché di ostelli non ce n’è e quando entro nelle coperte non posso fare a meno di verbalizzare ad alta voce la mia esultanza. Lo devo proprio dire..
Che bello…che bello…mamma mia, che bello. Oddio…che morbido…che bello.
Lo scrivo anche alle mie amiche, nella chat delle oche. Ragazze questa è la mia felicità di oggi. Un letto per me. Un bagno per me. L’intimità di una stanza. L’intimità delle cose sparpagliate nel sacro disordine mentale ed emotivo e spaziale.
Poter camminare nudi dopo la doccia, fare movimenti strani senza senso e versi strani senza senso solo per il gusto di poterli fare, non invadere lo spazio altrui, non farsi invadere il proprio, guardare un film col computer, allargarsi sotto le coperte e scalciare come Sandra Mondaini, ma mica di insofferenza…tutt’altro.
Cose scontate a casa, nella mia casa dove vivo sola.
Prospettive.
Cammino lungo un sentiero ed è tutto cascate e farfalle e uccelli gialli e arancioni che sembrano limone e arance volanti o fiamme di un fuoco fatto bene.
E poi, infine, arrivo in cima al monte per prendere la garrucha una teleferica tradizionale fatta d’assi di legno colorato.
L’avviamo tra mezz’ora.
Va bene, aspetto.
Una famiglia colombiana mangia su un tavolo vicino a me.
Cosa c’è dentro a un tamales chiedo?
Ah molte cose..riso, carne, uova, platano..
Sorrido e riprendo a mangiare le arance che una Signora mi ha regalato lungo il tragitto.
Ne vuoi un po’…Ci è avanzato..
Grazie, volentieri
E cominciamo a parlare e tutte le donne, per lo più anziane, si avvicinano attratte dalla straniera che non sa tanto ma che tanto vorrebbe sapere.
E questo c’è in Italia?
No, questa frutta non esiste da noi
E questo?
Nemmeno. Non si lavora la farina di mais
Ma questo, lo sai cos’è? mi chiedono mostrandomi un uovo di gallina.
E poi fanno a gara per svelarmi il loro nome. Come se fossimo in un negozio di nomi e io dovessi comprarne uno. Come se il nome fosse un vezzo, qualcosa che loro stesse hanno scelto, un duro lavoro che si sono conquistate, una dolce malattia.
A forza di parlare quasi perdo la Garrucha. Mille benedizioni e baci e abbracci. E mi stringono e mi salutano con la mano anche se ancora sono a 5 cm.
E dall’alto scendo sul bosco fino alle case. Dall’alto con il mio sentimento di riconoscenza per il tempo condiviso e condiviso bene, per questa mezz’ora d’amore, che quando viaggi da solo è la benedizione più grande che ti possa capitare.
E infine mentre mi incammino verso il mio hotel, pronta per una nuova notte struggente con il mio piumone, mi scontro con l’ultima prospettiva di oggi.
Una signora mi invita ad entrare a sedermi nel giardino. Mi offre un gelato. Mentre ero in strada la conversazione con lei era fitta, ora, dentro, si sta affievolendo. Si fa più seria. Mi immagino che la sua casa sia silenziosa…che non ci siano molte parole, qui.
Inizio a fare domande io. E’ sposata, signora? Ha figli?
6 figlie, ma 3 sono morte.
Io, il gelato, la sua rivelazione in una prospettiva dal basso verso l’alto.
il basso del mio essere tremendamente fuori da questo troppo e l’alto del suo esserci tremendamente dentro.
Non ha cambiato espressione, voce, non le è sfuggita una smorfia di dolore, non ha accennato un triste sorriso.
Me l’ha solo detto. Me l’ha fatto sapere. So questo, ma non il suo nome.
E questo accade, credo, solo se sei straniera in terra di altri, senza una storia, libera da tutto, e puoi accogliere, se vuoi (ma lo vuoi, porcocane) le verità di tutti, compresa la più difficile: la tua.
Compresa quella di due amici vestiti da sposo e da sposa che ti guardano commossi. Mentre tu la tua commozione la deglutisci per poter leggere tutto d’un fiato quello che devi dire.
E passano sullo schermo i volti delle persone belle, le tue, dall’altra parte dell’oceano disposte intorno agli sposi che ti ascoltano. Le persone della tua vita di sempre.
Se potessi abbracciavi tutti adesso. Tutti e adesso.
Tutti.
E così tra risa e pianti, e un affanno interiore misto ad adrenalina, arrivo alla conclusione.
“Io, sapete, posso dirmi a mia volta innamorata. Non di un colombiano..
Ma di questo momento. Del vostro modo di essere. Della vostra decisione. Della vostra festa. Dell’energia devastante che avete intorno che è fatta di tutte le persone che vi vogliono sinceramente bene e che sono lì, con voi.
Tutte eccetto una, che però è lì, in fondo, solo… in prospettiva”
Questo post è dedicato a Eli e Cianzo, alla loro bellezza, per la loro bellezza. Buona vita, ragazzi.
Canzone consigliata per la lettura: “Chosen one” The Concretes. Ma se uno ne ha voglia, anche “Water and whiskey” dei Pecksniff (per i 6 anni insieme sul palco)