Cucù!
Ciao! Ma sei davvero chi penso che tu sia?
Eh, mi sa di sì…
Come ti posso chiamare?
Come fanno tutti direi…Balena. O anche “Hey Wonderful Mrs. Balena!”
Ma mica ci credo. E’ impossibile. Sei davvero davanti a me e ti vedo. Ti vedo. Non sei quella che si è mangiata Pinocchio e Geppetto e visto che non sei bianca, immagino tu non abbia niente a che spartire con il Capitano Achab, no? C’entri niente con i racconti, con i libri, con Quark e con Piero Angela. C’entri niente con i disegni che facevo di te quando avevo 8 anni e mio fratello, che ne aveva 11, mi spiegava tutte le questioni scientifiche di come respiri e nuoti e di cosa ti nutri e no Patti, non si dice pesce è un mammifero marino e si chiama cetaceo.
Ci ho messo 36 anni per vederti, ma alla fine, porca la miseria ladra, ce l’ho fatta.
E non ci sei solo tu!
Ci sono centinaia di delfini che nuotano, piroettano e saltano vicino a questa barchetta che sta trasportando 7 anime spalancate alla meraviglia di un’alba rossoamore, di un mare che si sveglia tutto insieme, che ha fame e che si agita, e sale in superficie e si mostra e esiste tutti i giorni, non solo ora che sono qui a vederlo con gli occhi miei. E mi butto in acqua rapida – che quasi mi rompo una gamba, tanto agile (non) sono – per nuotare con i delfini, perché li voglio vicini, perché li voglio toccare, perché voglio anch’io una pinna caudale come motore di tutto.
Ma sono rapidi, urka se sono rapidi e devono danzare e devono cimentarsi in evoluzioni acrobatiche che meriterebbero tutti i clap clap di questo mondo. Che bella che è questa squadra di nuoto sincronizzato, dentro, fuori, e su spingiti in aria e saliiiii e scendiiii e ruota e ok, primo premio, ve lo assegno io, che mica sono un giudice, ma voglio proprio vedere se qualcuno ha il coraggio di trovare qualcosa di più incondizionatamente perfetto della natura all’alba (della natura in qualsiasi benedetto, sacrosanto, momento)
Sento il sibilo che producono sott’acqua e lo sento forte e mi convinco che stanno cercando di dire qualcosa pure a me
Ciao- come stai? – spostati o ti investiamo! – Ti piace stare qui? – Dovresti migliorare il tuo modo di nuotare – Hai un bel costume – Non trovi che l’acqua sia fantastica oggi?- E’ bella la vita, sì lo pensiamo anche noi.
Hey Wonderful Mrs. Balena?
Dimmi tutto
Sei mai stata innamorata tu?
Di un Wonderful Mr. Baleno?
No, intendo di un pezzo di mare. Sei mai stata tanto innamorata di un pezzo di mare che anche se tutti se ne andavano da altre parti, perché magari di cose da mangiare non ce n’erano più, oppure perché faceva un freddobestia, oppure perché c’erano poi altre robe da vedere in fondo (nel fondo) – e quindi voglio dire adesso ciao io levo le tende – tu invece testarda come pochi, ci rimanevi in quel posto?
Mica per altro, mica per fare la diversa, il bastian contrario della situazione. E’ che più o meno in quel pezzo di mare ci avevi messo le radici, in pratica…E come si fa, a quel punto a sradicarle, le radici?
Oh!! Che bella che sei quando respiri!
In realtà sto sbuffando…Ma io dico mi parli di radici… a me che vivo nel mare. Che radici vuoi che possa mettere io qui sotto. Se non mi sposto non sono io, se non mi sposta non è mare.
E’ la mia natura.
Non riesco a lasciare Zipolite.
Non preoccuparti. Sarà Zipolite a lasciare te.
A me, Alice e Flor è successa la magia in questo mese di permanenza a Zipolite, sull’Oceano Pacifico, in Messico. Abbiamo avuto un tempo infinito e l’abbiamo speso per capire chisseitu chissonoio, abbiamo parlato, sul serio, fissandoci negli occhi, senza abbassare lo sguardo mai, andando nel profondo, tremendamente faticosamente nel profondo, mostrando rispettive ferite e conseguenti cicatrici, vedendo rispettive ferite e conseguenti antiestetiche cicatrici. Ci si cura come si può, ci si rammenda a casaccio, si cuce in fretta con urgenza, e a puttane tutto il resto.
Abbiamo vuotato il sacco. Non abbiamo tenuto niente.
A me è successo questo (sono certa che lo vedi quanto è complicato e doloroso è questo) e questo mi ha fatto sentire e così e con questo ho dovuto combattere e questo ha cambiato il mio modo di percepire e sentire e apprendere e dare e ricevere e questo ora, indiscutibilmente, fa parte di me. Eccolo il nostro pacchetto “azione-reazione-conseguenza” che ci portiamo dietro come un fagotto, quasi una coperta di Linus, di cui ormai non conosciamo più il peso, il colore, la consistenza, perché fa parte di noi e basta.
E’ vero che siamo la risultante di esperienze vissute che non tornano indietro, ma se qualcuno ci offre prospettive nuove, possibilità per vedere la spinosa questione in maniera inconsueta, inaspettata e addirittura ci mette in testa che sai cosa? puoi cambiare, puoi cambiare il tuo fagotto, soprattutto se è un fardello, soprattutto se non ti piace, soprattutto se non va d’accordo con te; ecco, allora, c’è da drizzare le orecchie, ragazzi.
Oppure ancor meglio, sai cosa puoi fare? puoi farci la pace, con questo fardello.
Io, Flor e Alice ci siamo pettinate i sentimenti, quelli più intricati. Abbiamo cullato le nostre paure, abbiamo offerto un estintore alle emozioni che andavano a fuoco, abbiamo scaldato ciò che di noi aveva freddo, e addomesticato ciò che era bestiale e selvatico.
E’ successa, nella spiaggia di Zipolite la magia tra tre donne connesse al posto e connesse tra di loro e una notte le stelle ci hanno fatto venire voglia di piangere, perché venivano buttate fuori dalla schiuma delle onde bianchissima ed era il cielo più illuminato che avessi visto in vita mia. E noi ridevamo come pazze di fronte alla meraviglia e un uomo si è fermato per dirci “Ragazze, non fate il bagno di notte, che è pericoloso” e noi abbiamo detto, che no, che non eravamo ubriache, ma solo felici. E a volte, da fuori, le due cose si possono confondere.
Dritte sulle nostre spine dorsali siamo piombate in un silenzio rispettoso e tombale di fronte al suono dell’oceano. E poi ognuna di noi ha chiesto e promesso.
Ascoltavo la voce di Alice e quella di Flor e le sentivo così familiari, così note, come se fossero mie da anni, dalla vita intera. Lo spagnolo di un’italiana, di una francese e di una argentina.
I limiti di un’italiana, di una francese di un’argentina. Le mie braccia buttate sulle spalle di una francese e di un’argentina, con i nostri colli vicini e il nostro respiro calmo e regolare e le mani intrecciate come si fa da bambini quando si è appena finito di giocare a stregacomandacolori o a guardie e ladri.
Incamminandoci verso casa Alice si è fermata un attimo e ha urlato: c’è la fosforescenza!!
Il plancton illuminava l’acqua e anche la sabbia ogni volta che la spostavamo con i nostri piedi e sembrava che un tappeto di luce accogliesse i nostri passi, come per dirci che avevamo fatto qualcosa di nobile e grande, come se stessimo tornando da una battaglia atroce e avessimo vinto noi.
Io e Alice avevamo nuotato a Puerto Escondido in una laguna e il fenomeno della bioluminescenza l’avevamo visto sulla nostra pelle, sui nostri capelli, sulle nostre mani, marchiato sulle braccia. La laguna nera nera nera, e il plancton quasi a ricordare che nero nero nero non è nulla.
E il plancton brilla quando lo muovi per difesa, e questa cosa mi ha fatto tanto pensare. Che cosa succederebbe se per difenderci, ogni volta che abbiamo paura, ci mettessimo tutti a brillare? Non a sbraitare e nemmeno a prenderci a sberle e calci o a tremare come foglie o a offenderci, bestemmiandoci contro tutto il male del mondo. Se di fronte alla paura, quella vera, fossimo in grado di brillare, di risplendere? Chissà come sarebbe il mondo al di sopra del mare.
Sembrerà irreale ma molto di quello che abbiamo chiesto quella notte è arrivato, in forma diversa, a tutte e tre, nel corso dei giorni. Occasioni in cui metterci alla prova. Possibilità di cambiare in piccolo che poi è già mostruosamente grande. Nuove strutture emotive nelle quali incastrarci, teorie che necessitavano pratiche. L’hai chiesto, adesso vediamo cosa sai fare?
E le balene, ve lo dico io, non mentono mai.
Io non ero capace di lasciare Zipolite, e quindi Zipolite ha lasciato me.
E una domenica qualunque, nel tempo di pochi minuti ho preso una decisione procrastinata per giorni e settimane. Ho comprato un biglietto per Tapachula, alla frontiera con il Guatemala e il giorno seguente, con un nodo tremendo alla gola, con la testa che girava come se fossi febbricitante o come se mi avessero preso a pugni, con tante (diosanto quante) lacrime sparpagliate qui e là come per innaffiare un terreno, in cui, in un modo o nell’altro avevo seminato, senza voltarmi, senza ripensarci, a denti stretti, sono andata via.
Non la voglio edulcorare la mia vita qui.
Non voglio dire che tutto va bene se in realtà no, tutto non va bene.
Non voglio che si pensi che viaggiare in solitaria sia uno scherzo.
Non voglio fingere di non essere stata accerchiata alla frontiera, di non aver capito bene cosa stesse succedendo perché ero stanca, ero spossata, avevo viaggiato una notte intera per 12 ore.
Non voglio omettere il fatto che tutti mi stavano addosso e dovevo cambiare i soldi e mi osservavano e volevano (cosa volevano?) dirmi o vendermi qualcosa.
Non voglio dimenticare che avevo perso i miei lucchetti; i lucchetti che ogni volta chiudono tutto, e salvaguardano le pochissime ed essenziali cose che mi porto dietro e che mi servono.
Non farò finta di non aver sentito cosa mi ha detto la signora mentre mi timbrava il passaporto: tu adesso lo metti via e per nessuna ragione, nessuna, lo tiri fuori.
Non vi posso tralasciare come la frontiera sia terra di nessuno e nessuno vi possa aiutare. Nessuno.
E quindi mai e poi mai attraversarla a piedi.
Mai a e poi mai da soli.
Non ho intenzione di ignorare che a un certo punto erano in 8 e mi chiedevano soldi e che comunque non so come ma ho avuto la forza di dire che no, che non era giusto, che tutti quelli che mi chiedevano non li avrei dati, ma che alla fine ne ho dovuti dare, senno da quella situazione non ne uscivo.
Non posso nascondere la vergogna, la frustrazione, la mortificazione di scoprire molte ore dopo che al mio bagaglio mancavano all’appello la go pro che mi aveva regalato Aldo, un tablet e la mia borsa delle medicine, che vista da fuori può sembrare una borsa con soldi o gioielli.
Sono solo cose, Pinci
Sì, ma mi hanno rubato anche il coraggio, Massi.
Sono certo che non te l’hanno portato via tutto. Credevi che il mondo sarebbe stato solo gentile con te?
Credevo sarei stata più scaltra.
E’ passata. E’ un’esperienza in più. Lasciala dove deve stare, nel passato. Utilizzala per crescere.
Mio fratello e mia sorella potrebbero, a questo punto, via whatsapp, iniziare una serie di: Avresti dovuto…perché non hai fatto..come mai ti sei cacciata in questa situazione…sei stata incosciente…
Ma non lo fanno. Nessuno dovrebbe farlo. Io sono una donna e viaggio sola e tengo gli occhi aperti, splancati, e dire che sto attenta è dire poco.
Ma sono anche un essere umano. E a volte sono stanca. A volte sono annebbiata. A volte sono senza forze. E queste cose capitano in questi momenti.
Le mie debolezze qui, non sono diverse da quelle che ho (che abbiamo tutti) a casa, solo che io non sono a casa. E non sono nemmeno come il plancton e di fronte alla paura, purtroppo, non ho saputo brillare.
Per Arrivare a San Pedro sul lago Atitlan, Guatemala, ho dovuto viaggiare 24 ore senza fermarmi: un autobus notturno di 12 ore, 5 chicken bus e una barca.
Su e giù con borse e zaino, su e giù in continuazione, con la voglia di fare la pipì trattenuta per ore e ore (che non puoi pensare ad altro, a nessun’altra cosa in questo mondo se non al fatto che devi fare la pipì), con una stanchezza orrore, oscena e senza aver mangiato nulla per quasi un giorno intero.
Arrivo abbattuta, stremata, distrutta e accuso i primi postumi della paura: non mi lascio aiutare da nessuno, non sorrido quasi, mi guardo in giro timorosa, ma questo signore, Jose, ugualmente ha deciso che chissenefrega se questa europea viziata e cogliona non si sa comportare (ma io non sono così normalmente, lo giuro!) adesso le faccio vedere dove può dormire.
Il primo hotel è pieno, il secondo anche, il terzo ha un’infinità di scale. No, mi dispiace non ce la faccio…boccheggio dopo le prime tre rampe, non mangio e non dormo da un giorno, ma il quarto hotel, grazie al cielo, ha una stanza per me, col bagno in camera e sono sul lago e me lo posso permettere: 6 euro e 50 al giorno.
Mi fermo qui. Grazie.
Ritrovo un pezzo di sorriso, seppur molto debole.
Mi faccio la doccia, altro piccolo pezzo di sorriso riconquistato.
La battaglia è dura, lo giuro, ma adesso pian piano me lo restituite tutto.
Ordino una cotoletta (grande, per favore) con patatine (tante, per favore) e mi si illuminano gli occhi quando la vedo arrivare.
La signora della lavanderia in tre ore mi consegna tutti i panni lavati e piegati e ho voglia di abbracciarla.
Piombo in un sonno profondo e abissale. Non sono ancora guarita. Ho bisogno di vedere il lago la mattina, col sole, con le stradine con la gente, con la legna che viene trasportata e tagliata per strada, con i paesini che si affacciano sull’acqua blublu. Mi manca ancora qualcosa, qualcosa che risolva la mia paura e…la trovo nei negozi. Mica la compro, magari si potesse. Ma mi rendo conto che qui, per dire “Prego” si dice “No tengas pena”
No tengas pena, non ti affliggere, non aver paura, non preoccuparti.
E compro il riso….Gracias, No tengas pena
E compro l’olio…No tengas pena
E il mango, i pomodori, i cetrioli e ovviamente l’avocado…No tengas pena
E anche due dolcetti e del pane…No tengas pena.
Va bene. Va bene. D’accordo, va bene.
Non ci penso più. Me lo state dicendo in tanti. E io farò come mi dite.
Voltiamo pagina.
Guatemala, eccomi. Raccontami. Dimmi un po’: chi sei tu?
————————–
Canzone consigliata per la lettura: “Maps” Yeah yeah yeahs