Cura d’esser chi sei, che ti amino o no
Fernando Pessoa
“Tu mi piaci”
Sorride. Arrossisce. In un modo tremendamente grazioso, per dirla tutta…perché il cambio repentino di colore, non interessa solo quella zona dove, per lo più, ci si aspetta di osservarne gli effetti; dal margine inferiore dell’orbita e del processo zigomatico dell’osso frontale fino al margine inferiore della mandibola: la guancia, insomma.
Questo ragazzone della terra del fuoco, Ushuaia, arrossisce anche in fronte. Ma santo cielo.
Provo sempre tenerezza e gratitudine verso gli uomini che sono in grado di rappresentare sul loro volto la narrazione fugace e passeggera di un’emozione. Privi di eritrofobia. Liberi di epidermide.
Se poi sono uomini dotati di barba, pancia, spalle larghe così, sono ancora più grata…lo trovo ancora più tenero.
“Cosa ti piace di me?” ribatte con un filo di voce e con l’urgenza di deglutire, svelata, senza pietà, dal suo pomo d’Adamo che sale e scende come un ascensore.
Questa, a parer mio, è una domanda che costa produrre, se si ha la forza di non abbassare lo sguardo. C’è un conflitto interno irrimediabile. Da una parte sostenere il complimento e il pudore che provoca, dall’altra volerci andare a fondo. Non potersi esimere da questo tipo di ricerca, dall’ego che scalpita e si gonfia come un pavone e dal risolvere, in breve, una questione per tutti noi fondamentale: cosa di me fa breccia in un altro essere umano?
“Mi piace il tuo modo di ridere” gli rispondo.
Che poi, insieme alla forma delle mani son due robe che mi mandano in pappa il cervello.
Ride…perché come fai a non ridere se ti dico che mi piace come ridi?
“Anche tu mi piaci, Patricia” E così ci guardiamo per un po’; lui, tra le labbra un nome, del quale non è in grado di restituire – manco a pagarlo oro – la sua legittima zeta; io alla fine del mio viaggio in Patagonia, nell’ultima terra, l’ultima città abitata, alla fine del mondo.
C’è qualcosa…qualcosa di atroce e spaventoso nel vento della Patagonia.
Una tribolazione, una bestialità nobile.
Una Spalancata ferocia.
E alla fine, se sottoponi il tuo corpo a questa terapia di vento patagonico – e non sottoporti a questa terapia di vento patagonico senza un cappuccio eternamente incollato al perimetro della faccia o, per lo meno, una cuffia di pile – comprendi che il vento riguarda il petto, il torace.
Il vento è un torace che esplode. Il vento ti massacra la testa, per farti esplodere tra le costole e i polmoni.
Il vento esige creazione e rincorsa. Movimento e poesia.
Ma scordati carezze. Scordati cure e attenzioni. Scordati di essere accompagnato. Preso per mano.
Aspettati schiaffi che ti girano la testa di 180°, aspettati di essere sollevato da terra, scardinato fino alle fondamento. Succhiato e poi rigurgitato, buttato via, e poi ripreso. Aspettati lame, lame in faccia. Zig zag di taglierino. E anche che lui ti parli e che ti dica: adesso ti sradico, verrai divelto, scoppierai nel petto, all’improvviso come fanno le bomba e con fatica come fanno le farfalle che escono dal bozzolo. Riconoscersi è un travaglio. Che credevi, scusa?
Ci sono numero 4 coperte di lana, prima di arrivare alle lenzuola. Ho scelto la camera – cameretta, sarebbe più corretto – dalla quale si vede il Cerro Castillo, e a Cerro Castillo mi trovo, Carretera Austral, Cile. Ho cenato con Nataly, cilena di Villarica. Mi ha fatto uova e purè, e io mai e poi mai, avrei pensato di potermi innamorare così profondamente di un purè in polvere.
La mattina siamo partite da Coyhaique con un bus scassato – che ci è venuto a prendere direttamente all’ostello a mo’ di taxi – le cui porte, per buona parte del tragitto, non hanno accennato a volersi chiudere. L’aria che entrava induriva i miei polpacci, rendendoli marmorei ma vivi, pulsanti e, giurerei, straordinariamente muscolosi. L’aria come Michelangelo, io come il Mosè, nella basilica di San Pietro in Vincoli a Roma. Stessa posa, mentre guardo dal finestrino, stessi polpacci pronti a scattare.
A Cerro Castillo 4 o 5 cuadras di civiltà, un’unica strada principale, qualche hospedajes, 2 minuscoli e sfornitissimi negozi di alimentari. E poi a circa 5 km dal paese il Paredon de las Manos, Una grotta, una lastra di pietra con dipinti rupestri, dove il passaggio dell’uomo è impresso da 10.000 anni
La mano dell’uomo. Le mani. L’impronta del proprio essere tramite quella parte del corpo che ne determina il fare, l’agire. Danza di mani, vortice di mani, arcipelago di mani, un-due-tre stella di impronte digitali.
L’accettazione del mistero. Cosa significa? Perché lo facevano? E chi lo sa, ci risponde la guida. E chi lo sa…
E lì, a circa 20 minuti dalla grotta, nel mezzo del nulla c’è un piccolo museo, un tempo scuola, che raccoglie ricordi e pensieri di ex-alunni, di tempi passati, ma non così lontani. In poche parole, viene descritta la solitudine irriducibile di quelle terre, le distanze atroci, il rigore della natura, del vento.
“Con mis 9 hermanos, veníamos de lejos a la escuela. Cuando se nos hacía la noche, dormíamos por ahí con los caballos. Los ruidos del bosque nos daban susto a rato”
(Con i miei 9 fratelli, venivamo a scuola da lontano. Quando arrivava la notte, dormivamo lì, insieme ai cavalli. I rumori del bosco, a volte, ci spaventavano)
o anche
“Una vez que me enfermé grave, el profesor conseguio´ que me llevaran a Coyhaique. Sola estuve alla´en el hospital más de 1 mes. Mi familia se entero´ cuando volví en vacaciones”
(Una volta mi ammalai gravemente, il professore riuscì a farmi portare a Coyahaique. Stetti là, nell’ospedale, sola, più di un mese. La mia famiglia lo scoprì solo quando tornai per le vacanze)
Io me li immagino questi bambini. Rannicchiati, uno addosso all’altro, abbracciati, intrecciati di corpi e di paure, mentre il vento ulula e graffia e sbatte contro i vetri.
Che è la stessa paura che provo io, stanotte, sotto numero 4 coperte e un lenzuolo, mentre il vento, nella mia cameretta del secondo piano dell’hospedaje Rodeo, cerca disperatamente di sfondare il vetro, con dei colpi ritmati, con un lamento acuto, costante, di lupo. E io sono incredula, non mi capacito di come quella finestra malmessa, fragile, sottile come un foglio di carta non si fracassi all’istante, non sbotti in mille pezzi sul pavimento. Quella sera, quel vento mi inquieta. Al pomeriggio, un vento diverso, caldo, mi aveva ferito gli occhi di pietre, alzandole da terra mentre camminavo sulla via ghiaiosa che conduce al Paredon de las Manos. Ho camminato a occhi chiusi, coprendomi la faccia con tutto quello che avevo. E pensavo: ma cos’è che vuoi da me? Cos’è che vuoi? Ero nervosa, sovraeccitata quasi. Iniziavo a sragionare. Mi sentivo preda, indifesa, disarmata e sconfitta mille volte. Perché il vento, tra le altre cose è tenace…chiedergli di smettere di strattonare è come chiedere a un cane di consegnarti l’osso che tiene serrato tra le mandibole.
E ho pensato, forse vaneggiando, alle pietre negli occhi. Al procedere senza guardare.
Al perdersi il contingente, il colore degli alberi e del fiume, lo spessore delle rocce scavate per dar vita alla strada, la terra rossa, gli arbusti solitari.
E ho pensato, forse vaneggiando, al procedere senza guardarsi, senza aver idea di sé stessi, ridotti in meccanismi quotidiani, che manco sappiamo più se ci piacciono o no.
E questa è stata la prima volta, in cui ho sentito che il vento chiede onestà. Che al vento non gliene frega di nient’altro. Che è totalmente disinteressato a convenevoli, scuse, giustificazioni, cazzate intimiste ridondanti e poco risolutive. Non gli frega al vento. Non ha tempo. Letteralmente, non ne ha. Vuole solo che gliela consegni nuda e intera e luminosa la tua verità.
E infine ho pensato a un collirio e al fatto che avrei fatto carte false per averne uno.
Nella Patagonia del nord, Villa la Angostura, per essere più precisi, ho sentito profumo di erba calda, intenso profumo di erba sottoposto al calore del mezzogiorno, ma non così intenso come quando è tagliata, come quando è fieno. A tratti odori pungenti che mi ricordavano il ribes, insieme a escrementi di vacca. A Chiloe, magica isola nella parte cilena, il profumo del lago ha lasciato spazio a quello salmastro del Pacifico. Un odore acre, a tratti nauseabondo, di pesce in decomposizione, putrefatto; ma più spesso vivo, seducente, irresistibile nelle zuppe di vongole e cozze giganti, rinvigorite dal culantro. A Esquel, di nuovo Argentina, c’era odore di timo e di lavanda. Sulla carretera Austral in Cile attraversa l’aria l’odore di torta fritta, di legno, di piscio, di carburante, di lago dolciastro, di sudore, di carne alla griglia, di cavallo, di pietra.
Gli odori li porta il vento. Oppure gli odori li cancella tutti.
Dove sono ora, trincerata dietro alcune pietre, affossata in una piccola conca, non mi sembra di aver perso solo l’olfatto ma anche tutti gli altri sensi.
So che dovrei togliermi la camicia sudata di 12 km di trekking, visto che ne devo fare altri 12 per tornare a casa, ma sono completamente paralizzata.
Allora penso che comunque devo scaldarmi il corpo e prendo il thermos di tè, che mi ha salvato 1000 volte in questa parte di mondo e provo a versarne un po’, ma lui arriva in picchiata e sposta lateralmente la massa d’acqua calda che cade tra le pietre e i miei pantaloni.
Mai…mai nella mia vita, ho sperimentato un vento di questa portata. Qui a Laguna Torres, El Chalten, il vento ha fatto di me quel che voleva come se tutta la mia struttura corporea fosse ridotta al peso insignificante di un bastoncino spezzato, un sasso, un niente da dichiarare. Per arrivare a questa conca mi sono dovuta attaccare alle rocce, e abbassare a terra fino quasi a strisciare.
La laguna ondeggia come un mare, ha un colore grigio latte, alcuni blocchi di ghiaccio si muovono come salvagenti. Guardo le altre persone. Tutti sono nascosti, qualcuno mi fa ciao con la mano, quasi a manifestare vicinanza, solidarietà, ma anche lo stesso disagio, lo stesso stupore. Siamo tutti nella medesima squadra e stiamo giocando a nascondino. E il vento ci deve trovare. Mi aspetto quindi che qualcuno si porti un dito alla bocca ora, per dirmi fai silenzio, non farti scoprire, eh!
Ma come fai? Come fai a non farti scoprire dal vento?
Alla fine mi alzo, e lui fa ‘tana Patrizia’ in un secondo. E inizia a spingermi, a strattonare, a trattenere. E io lotto e tendo i muscoli, e mi scoppia la testa, e mi viene da imprecargli addosso e i pensieri rimbalzano e si attorcigliano come una massa di fil di ferro, ma subito dopo evaporano. Una ragazza mi tende la mano, per aiutarmi. Gliela prendo. Ogni passo mi costa una fatica immensa, ma quando cambio direzione costa invece fermarsi.
Mi scaccia con una forza inaudita. Non riesco a controllare il mio corpo. Ad affrancare il mio diritto alla bipedia, a srotolare la colonna vertebrale, a seguire il sentiero.
Sbando verso un arbusto, devio verso un tronco di traverso. Trotterello, svuotata di qualsiasi volontà, verso la sponda del fiume. Caccio un urlo di frustrazione, ma anche di guerra.
No! Gli dico. No!!
E mi spingo, faticosamente, fuori dalla laguna, fino al bosco, dove la sua forza si disperde, assorbita dagli alberi e dai dislivelli della terra.
Io qui, a laguna Torres, comprendo perché il vento fa diventare pazzi.
E` la violenza, certo, la caratura della sua forza, il martirio del corpo, ma è altro ancora. E`il fatto che fa dimenticare. Cancella il pensiero, lo rende illeggibile, indecifrabile.
E`l’amnesia dell’essere. Un disgraziato oblio.
E`il vuoto profondo che scava, la tregua che non concede per riempirlo.
Mi ha fatto pensare a quanto si debba essere saldi, a questo mondo, quando un vento così ti attraversa – o quando un dolore così ti attraversa – per non dimenticare la forma unica, irriproducibile del proprio sentire.
Il dolore, come questo vento, arriva dappertutto, e per un po’ ci tiene in scacco come burattini. Non puoi avanzare, o devi farlo in maniera scomposta, disarticolata, con pezzi di corpo che si sparpagliano da tutte le parti, che non son più tuoi. Sono suoi.
Mi ha fatto pensare a quanto si è goffi, quando si sta male. A quanto si è miseri, inermi, nascosti dietro le rocce, spiando con un occhio solo a che punto si è del proprio lutto. Illudendosi di poter affidare a terzi il responso dell’avvenuta guarigione. Posso uscire ora? E`finita per davvero?
Però mi ha fatto anche venire voglia di dire no. Di girarmi e di dire, vaffanculo, no!
E di andare via, più dritta che potevo, col pantalone sporco di tè, i capelli elettroshock, la faccia allucinata, le occhiaie nere come la pece, le tempie martellanti e un freddo cane da farmi rabbrividire fino al midollo osseo.
Nuvole basse sulla ruta 40. Tra Bariloche e El Bolson. Tra il lago Nahuel Huapie il lago Puelo.
Nuvole basse ad ogni confine, tra Villa la Angostura e Osorno, tra Esquel e Futaleufù, tra Chile Chico e Los Antiguos.
Sulla carretera Austral nuvole tetto, compatte, solide, agibili, accessibili, sulle quali si può dire, fantasticare, ideare storie, immaginare idiozie, proporre matrimoni tra un’aquila e un guanaco.
Spesso, per centinaia di km, per moltissime ore non si vede mezzo cane. Gli autobus procedono nel nulla. Ma appena fuori dal finestrino il vento si agita, percuote, muove, sgretola, riassembla. Non c’è una sola parte di questo immenso che sia lasciata imputridire. La pampa immobile, non è immobile mai.
E` dura lei. I suoi lineamenti lo sono. Il modo di camminare, di mettere il bollitore sulla stufa, di spostare le sedie. Gli sguardi di traverso, obliqui; gli occhi socchiusi da rapace.
Qui a Puerto Bertrand, non c’è nulla da fare. L’ho scelto per questo. Voglio stare tutto il giorno sul pontile. Leggere davanti all’acqua. L’autobus per Chile Chico passa solo il venerdì, quindi anche volendo non ho altre opzioni: posso solo aspettare. L’hospedaje Ester è fucsia. Con frazioni di casa aggiunte alla carlona; e ora più che una casa sembra un’anaconda o un labirinto. Non ci sono altri ospiti. Solo io e lei. Mi dà una stanza vicino alla sua. Il bagno è in comune, mi dice. La doccia calda, una volta al giorno. Avvisami prima, devo accendere la caldaia.
Lei è come il vento, soffia da tutte le parti, muta di continuo. Umorale fino all’osso, che dev’essere appunto un osso di vento.
Un po’ apprezza la mia presenza e un po’ la soffre. Le fa piacere se resto, è contenta quando me ne vado. Desidera che mi senta a casa, mi tratta con distacco. La sua confidenza dura il tempo di una birra, che mi offre una sera nella piccola sala – suo regno incontrastato – dove, normalmente, guarda le telenovelas, il telegiornale e qualche festival musicale.
Siediti, mi dice.
Anche volendo, non potrei obiettare.
Io che parlo anche coi sassi, e che, allo stesso modo, ho imparato a sostenere lunghi silenzi, provo ora, di fronte a questo burbero essere umano, una nuova, particolare, indecifrabile soggezione. Mi sento un po’ sulle spine e intuisco che nessuna rivelazione tra me e lei potrebbe togliermici.
E viaggi sola?
Sì
E non sei sposata?
No
Neanche fidanzata?
Neanche.
Io avevo un marito.
Dov’è adesso?
Morto.
Mi dispiace.
A me no. Mi picchiava. Sono contenta che non lo faccia più…Quanti anni mi dai?
55, le dico, ma ne dimostra 70 per lo meno, solo che ho davvero bisogno di cadere in piedi con lei e non oso ridurre il suo enigma a un’involontaria scortesia.
Ne ho 62, risponde con un orgoglio che io percepisco, ma che lei non vuole che io percepisca. Non vuole, ne sono certa. Non desidera manifestare il minimo vezzo, il piacere di sapersi piacente, o ancor peggio cedere alla vanità. Vuole invece che io sappia che quel posto lo gestisce da sola e che cucina anche per 30 persone e che spacca la legna tutte le mattine e guida la macchina e che le piacciono le cose in ordine (anche se il bagno, proprio pulito non lo definirei) e anche che c’è un uomo, un autista, che la ama. E che lei l’ha soccorso una volta, perché gli sanguinava il naso.
E che lui, la volta dopo, è venuto a mangiare il cordero e gliel’ha detto. Io ti amo Ester. Ti amo sul serio. Voglio stare con te, passare tutto il tempo con te. Io ti penso Ester, di continuo. Ti vedo in ogni curva mentre guido l’autobus. Farei di tutto per te, Ester.
E lei gli ha detto che va bene, che le va bene che lui la ami. Ma non ci vuole dormire insieme.
Non le interessa quello, non ne ha voglia. E che quindi si ameranno di baci, poi ognuno dormirà a casa sua, nel suo letto. Ma che possono pranzare e passeggiare, tenersi per mano e prendersi un mate o un caffè a Cochrane.
E poi la birra finisce e anche l’incanto. Mi dice che è ora di andare a dormire. Certo, rispondo. Mi metto a letto e giro la testa verso la finestra, spostando la tendina. Il cielo è gonfio, stracarico di stelle in questa parte australe di mondo. C’è posto per tutti. Lassù e quaggiù. Anche per chi si ama, ma l’amore non lo vuol fare.
La mattina seguente, verso le 8, entra spalancando la porta della mia stanza, senza bussare, senza dire buongiorno, ignorando il mio sgomento, fottendosene bellamente delle due o tre questioni basilari riguardo al concetto di privacy, che più o meno tutti dovremmo conoscere.
Devo andare a Cochrane, mi dice in un tono lapidario, che malamente cerca di mimitizzarsi in un tono cortese. Viene un uomo…gli devo pagare una fattura. Puoi farlo tu? Lascio i soldi sul tavolo. Torno tra un paio d’ore.
Non ricordo di aver sentito uscire dalle mie labbra quella piccola particella affermativa, che le assicurava che sì, lo avrei fatto. Forse, piuttosto, un sorriso spaventato e incredulo che Ester deve aver scambiato per il massimo che potesse produrre questa italiana così poco loquace e che alle 8 di mattina ancora dorme.
Nessuno arriva a riscuotere il pagamento della fattura, ma arrivano invece, su un camioncino, due ragazzi. Abbiamo portato un quarto di vitello per doña Ester, mi dicono.
Non c’è, rispondo.
Non importa, lo stava aspettando.
Lo adagiano sul tavolino tondo in salotto, tra i divani e la televisione. Mi dicono di coprirlo e lo faccio con l’unica cosa a disposizione, una tovaglia bianca ricamata a mano.
Se ne vanno. Resto fuori, seduta sotto il portico, con le gambe a penzoloni, la legna tagliata e sparpagliata nel cortile, un uovo sodo in mano – parte della mia colazione – il cielo terso, il solito vento tagliente – che sono certa, un giorno Ester ha afferrato e sbattuto dentro di sé, e dentro di sé lo lascia vagabondare – e un quarto di vitello vestito da sposa.
Cigolano come porte antichissime. Come quelle porte, che da bambino ci vuole un fegato grande come una casa ad attraversare. Cigolano come porte che promettono avventure. Vieni dall’altra parte, sembrano dire, attraversa la soglia.
Cigolano, ma non sono porte, sono alberi. E`il sottobosco.
Sono gli alberi del Parco nazionale della terra del fuoco, a Ushuaia, mossi dal vento. Il rumore è interrotto solo dai picchi di magellano che martellano la corteccia col becco appuntito.
Cammino sola, e camminerò tutto il giorno.
Inizio dalla zona costiera del Parco, che si affaccia sul canale di Beagle. Non ci sono parole per descrivere questa natura. Una bellezza sconcertante che mi riempie di sgomento e commozione, e questo invito costante al coraggio, sintetizzato in un suono, nato dall’intersezione di legno e aria.
Mi sento completa. Mi sento solida, straordinariamente presente.
Sento che la natura non vuole negarmi niente, ma darmi tutto.
Nel bene e nel male, tutto. E che non devo trattenere nulla, come il vento insegna ed esige.
Ed essere una porta, venire attraversata anch’io.
Consegnarla nuda e intera e luminosa la mia verità.
Cura d’essere chi sei, che ti amino o no.
Una volpe passa poco distante da me. Un condor delle Ande plana su questa natura sub-antartica.
Nell’ostello di Ushuaia si sono dette le cose come stavano. Un gruppo di persone, spesso riunite nello stesso tavolo la sera, ha detto le cose così come stavano.
Ho detto a una persona che mi piaceva per il puro piacere di dirgli che mi piaceva. E`stato detto anche a me.
Sono state fatte molte dichiarazioni, non d’amore, ma di verità.
Sebastian, un basco, aveva ad esempio, una sua personale lettura riguardo ai miei occhi e me l’ha esposta. Sol mi ha chiesto di regalarle una camicia..l’ho fatto. Igor mi ha regalato la sua. Luis mi ha parlato del suo concetto di amore, Loquito mi ha parlato del suo concetto di amore verso la sua moto.
Secondo la mia personale visione, la sincerità di richieste e affermazioni espresse attorno a quel tavolo è da attribuirsi al fatto che tutte le donne e gli uomini lì presenti siano stati sottoposti a lunghe sessioni di vento patagonico. Come accade quotidianamente alle colonie di pinguini, leoni marini e cormorani che popolano queste terre.
Abbandonando tutti i fronzoli e le cautele, tutte le donne e gli uomini lì presenti si sono consegnati, insieme ai loro pensieri. Hanno riconosciuto la bellezza dell’altro e hanno avuto bisogno di ringraziare per questo. Di dire ti vedo, lo vedo, e ti ringrazio.
Perché questo accade quando ti scoppia il torace e ti cresce, dentro, un osso di vento.