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Risposta singola a domande multiple

L’UNICO SPECCHIO IN CUI CI SI POSSA GUARDARE. MYANMAR (PARTE SECONDA) MANDALAY – MINGUN – INWA- BANGKOK

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Quello che scava col bastoncino è una metrata di essere umano. Forse meno. 80 cm, direi.

Gli altri due lo sono per certo. Un metro a testa di esseri umani. Non hanno bastoncini, usano le mani.

In tutto, quasi tre metri di umanità, sulla riva sabbiosa del fiume Irrawaddy.

Lui ha la pelle color yogurt alla fragola. Loro, cioccolato.

Lui ha i capelli rosso carota, guance vermiglie.

Loro hanno gli occhioni nero notte, guance bianche dipinte col tradizionale thanaka.

Non riescono loro, a non toccare il viso di quell’essere umano che sembra uscito dallo spazio. Non riescono a non passargli la mano sul collo, devono essere sicuri, al 100% che, anche sfregandolo, quel colore lì mica andrà via. E via non va.

Il bambino latte-fragola, pel di carota è davvero un bambino latte-fragola, pel di carota. Ora lo sanno.

Stregati, annientati, ammaliati, ipnotizzati, lo sanno.

Da dove vieni tu? Chi sei? Perché sei così diverso da me?

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La variegata, variopinta, incredibile moltitudine, di cui fanno parte, si snocciola all’improvviso, di colpo, Sbam! attraverso quella metrata di essere umano, dalla fisionomia arcana e non riconducibile a nessun altra fisionomia vista finora.

Scoprono il diverso sulle rive sabbiose del fiume Irrawaddy.

Lui non ne può più delle loro mani in faccia, sbuffa e si divincola. Loro sembrano essere coscienti e  addirittura dispiaciuti del fastidio che stanno arrecando. Sanno che dovrebbero smettere, si nascondono le mani dietro la schiena ad ogni suo movimento brusco, scocciato, quasi a dire: “D’accordo, scusa, non lo facciamo più”. Ma poi ci ricascano. Sopraffatti da quelle guance. Da questo specchio inconsueto, nel quale cercano, a fatica, di riconoscersi.

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Un’ora di traghetto per arrivare a Mingun.

Un’ora di Irrawaddy, il Fiume Madre, mitico corso d’acqua che nasce sull’Himalaya e si getta nell’Oceano Indiano. Mingun, l’antica capitale, ci saluta da lontano attraverso l’immensa incompiuta Mingun Pahtodawgyi, che torreggia dall’alto, irrimediabilmente squarciata nel mezzo da un terremoto nel 1838. Sembra un monito quasi. La rappresentazione architettonica, ad esempio, di un monumentale dolore, nel pieno di una vita fulgida, che fino ad allora della parola dolore conosceva solo il suono ma non la portata. Non la capacità.

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E`stato un terremoto a mandarla in rovina. Doveva essere 150 metri di pagoda. Un grattacielo di tempio. Percorro il perimetro e poi salgo lungo una scalinata esterna che ne costeggia un lato. Tra i mattoni sconnessi le persone hanno inserito bastoncini di incenso, a volte piegati, incastrati tra le varie insenature, come se a quei bastoncini di pochi grammi fosse affidata la mole immane che man mano si sta sgretolando. L’incenso come pezza, come garza per tamponare una ferita aperta. E`una delle immagini più potenti che mi porto a casa da Mingun, dal Myanmar e da questo viaggio in generale. E`un’immagine che interpreto come dichiarazione di fede del possibile nell’impossibile.

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Davide contro Golia.

Crollerò. No, non crollerai. A causa di quei minuscoli bastoncini? A causa loro, non crollerò? Sì, per causa loro, per loro merito.

La speranza descritta in quell’immagine è incandescente, fisica. Quasi mi sento percossa. Devo deglutire. Devo ricordare tutte le volte in cui mi sono letteralmente sentita appesa a un filo e il filo mi ha tenuto.

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Questo tempio avrebbe dovuto ospitare una campana di bronzo di 4,95 metri e di oltre 90 tonnellate. La seconda campana più grande del mondo. Tutto in grande doveva essere. Mastodontico. Immenso. Stupefacente. E`invece un memento mori.

“Del doman non v’è certezza” direbbe  Lorenza de’ Medici. E ancora, a distanza di secoli, avrebbe ragione.

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Poco distante, quasi come un miraggio nel deserto, appare la pagoda di Hsinbyume. Bianca, con un tema ondeggiante che tanto ricorda la panna montata sulla torta di un pasticcere dal polso felice. Diviso in sette terrazze che rappresentano le catene montuose in ascesa verso il monte Meru, montagna sacra della mitologia buddhista.

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Credevo di essere al sicuro oramai.

Credevo, dopo Bagan e il lago Inle, che non ci sarebbe stato più alcun pericolo.

Credevo che quelle emozioni in piena, quel senso di antico disagio, immacolato stupore, stretta allo stomaco, annaspante tachicardia mi avrebbero lasciato in pace qui.

Ma la bellezza di Mandalay non ne vuole sapere di farsi guardare senza lasciare un segno. E`qualcosa, lo giuro, di un incanto prepotente.

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Lo è Mandalay Hill a 240 metri sopra la città, con le sue pagode, che torreggiano tra la natura.

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Lo è il Mahamuni Pagoda con suo Buddha  bronzeo di 6 tonnellate, al quale, quotidianamente,  vengono lavati il viso e i denti, per poi essere ricoperto da sottilissime foglie d’oro che ne hanno modificato le forme, mutando spazi e spessori, come fa il tempo su tutti noi.

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E poi è un vortice. Dalle pregiatissime lavorazioni artigianali di tessuti e legno, fino alla visita -casuale- di un tempio distrutto. Ciò che resta del tetto giace ammassato sul pavimento. Con gli attrezzi del lavoro dell’uomo, che sembrano risvegliare nuovi curiosi sguardi dalle decine di Buddha, adagiati ai lati delle colonne.

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E` tutto distrutto, sembrano dire le travi e i trapani. Lo ricostruirete, sembrano dire i Buddha.  Loro così serafici, anche in mezzo a ciò che si è sgretolato come bricioline di pane, quasi a ricordare che niente è distrutto per intero, o per sempre. Che qualcosa, sì, a un certo punto crolla. E che a quel punto qualcos’altro – o qualcun’altro-  lo ricostruirà. Quel luogo tormentato, a me infonde un grande contraddittorio sollievo. Quella così ostentata imperfezione, in un luogo sacro, che tutti si aspettano perfetto, intoccabile, mi sembra così giusta. Non triste, solo giusta. Sincera.

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E ogni giorno al Mahagandayon Monastery, più di mille monaci, in fila, in assoluto silenzio ricevono il pranzo. E io non ho mai visto così tanti monaci come in Birmania. Con tunica rossa gli uomini, rosa le donne. tutti rasati, spesso in giro per la città con la ciotola dell’elemosina che viene riempita dai laici. Secondo la tradizione buddhista fare elemosina ai monaci è un’azione di merito, un modo per contribuire alla felicità futura. Tutti in fila, molti sono novizi, bambini che avranno 7-8 anni. Sono completamente rapita dalla inconsueta adultità dei volti, di quelle teste tutte uguali, dalle ciotole composte in mano, e dalla verità di bambini dichiarata dai loro piedi. Con le dita arricciate, l’alluce aggrappato, una gamba nascosta a modi gru.

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E ancora monaci bambini sono quelli che rivedo nel pomeriggio nel monastero Bagaya Kyaung a Inwa, antica città reale, a circa 20 km da Mandalay, che si percorre con calessi trainati da cavalli. E`un tempio in teak e una stanza è dedicata all’insegnamento, con mappamondi appesi in aria e cartelloni e stampe che raccontano cosa c’è dentro il corpo umano, con la sorprendente e irresistibile anatomia di ossa e muscoli e organi, e cos’è la natura con la sorprendente e irresistibile varietà di fauna e flora. E loro sono seduti su panche di legno. Sembra di tornare indietro di 50 anni. E`straniante e poetico. Dalla finestra entra una luce e un gatto.

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Inwa è tutta vegetazioni e palme e stupe e architetture corrose dal tempo, lacerate dal terremoto, in rovina, cariche di misticismo, magnetiche.

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E Il popolo birmano è tutto un sorriso. Tutto un sorriso, madonninasanta. E i monaci, molto garbatamente, mi chiedono se possono scattarmi una foto, perché sono strana io, così lontana in termini di occhi, capelli e lentiggini. Specchio inconsueto, nel quale cercano, a fatica, di riconoscersi.

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La sera vedo il tramonto sul lago Taungthaman, attraversato dal ponte in teak – U Bein – più lungo e vecchio al mondo. Metà del IXX secolo; 1,2 km.

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Questo tramonto è di una dolcezza, di un tepore, un’implosione tale che sento i miei muscoli rilassarsi e distendersi, mentre percorro, lentamente, tutta la passerella. C’è un albero, le barchette con i turisti affaccendati a trovare lo scorcio migliore, alcuni buoi, il prato. Basta così. E poi c’è la palla sole che si concede alla metamorfosi cromatica, con la solita illuminata indulgenza. Azzarda un rosa. Articola il giallo. Acceca di arancione. Affonda col rosso. Non c’è più scampo. Non c’è più scampo per nessuno. Chi non s’innamora sta fingendo. Chi si innamora è fottuto.

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Non ho mai avuto uno specchio.

Nel mio zaino, per un anno. Nessuno specchio.

Neanche di quelli piccini, giusto per vedere cosa stanno combinando le tue sopracciglia –  razza di anarchiche che non siete altro! – o i tuoi occhi dopo una notte infernale di autobus, magari; o i tuoi capelli che van da tutte le parti tranne quella in cui li vorresti condurre tu.  Son partita senza specchio, mica l’ho deciso. E`successo. Non ne avevo nessuno sotto mano. Lo comprerò, mi sono detta. Non l’ho mai fatto.

Per un anno mi sono specchiata pochissimo. Per intero, un numero irrisorio di volte.

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Butta via lo specchio che c’è il mondo da guardare

E`la strofa, questa, di una canzone che avrò ascoltato 2000 volte. S’intitola “La canzone dell’acqua”.

Nonostante la bellezza del titolo e della linea melodica, nonostante la ruvidezza e la grazia del cantato, è quella frase lì che a me ha sempre fatto girare la testa. Che anche se sei preparata e dici, ecco, adesso arriva.. niente da fare. Pieno manrovescio in piena faccia.

Semplice l’intento, l’esortazione: “Tacita un momento il tuo ego (iper o ipo che sia), se puoi, e guarda, sweetheart, che c’è altro là fuori…c’è molto molto altro. Smetti di rifletterti: rifletti.

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Ho lasciato Mandalay, dal suo piccolo aeroporto, direzione Bangkok.

Ho lasciato Mandalay e la Birmania, con tutta la sua bellezza nostalgica una mattina all’alba.

Bangkok è stata l’ultima città. Ultima tappa. Ultima meta. Ultimo tutto.

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– 120 ORE

Nel mio ostello accadono 2 cose principalmente:

la prima, ho un blocco allo stomaco dovuto, per certo, a quella cosa non identificata che mi hanno fatto mangiare sull’aereo e che io, guidata da una per niente accorta buonafede, ho inghiottito in un amen.

La seconda è che uno degli ospiti della camerata è ubriaco marcio. E`stato cacciato il giorno prima, ma non si sa perché è ancora lì e vaga in preda a un delirio alcolico degno di nota. Fortuna vuole che quello che fino alla notte scorsa era il suo letto sia stato assegnato a me, e che lui – più che annebbiato, fumante di rabbia – si sia convinto che mi sia accaparrata pure il suo portafoglio, che era lì fino a ieri, e mi accusa –  direi neanche troppo velatamente –  con un inglese biascicato e inferocito, e adesso dov’è? Lo sai tu dov’è? Lo saiii??

No, amico mio, io non lo so, ma una cosa è certa: da domani mi cerco un hotel, perché sono alla fine, oramai, e penso che a sto punto davvero, io debba farmi il favore di raccogliere le idee, i pensieri, rilassarmi, respirare, girare in mutande – se mi va – senza nessuno a 2 metri che mi voglia menare.

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– 90 ORE

Bangkok la vivo come si vive un sogno, di quelli del mattino, quando sei in uno stato di veglia confusionale… ricco di memorie frammentarie e simboliche. E`tutto a pezzi. Presente, no? nei sogni, che vai avanti e indietro, e a volte sei tu, altre volte non sei tu, ma sai che sei tu, solo che hai una faccia diversa e anche un corpo diverso. E fai anche cose, che voglio dire, non faresti mai.

Che faccia ho a Bangkok?

Nel mio albergo ce l’ho uno specchio a figura intera. Mi posso guardare, anche per più di qualche minuto

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Che faccia ho? Ecchilosa.

Ho la faccia di una che tra 90 ore o giù di lì conclude l’avventura più significativa,  più densa, più complessa, più feconda, più travolgente e stravolgente della sua intera vita. Dell’intera sua esistenza.

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Ne parlo un po’ con tutti. Col mastodontico Buddha sdraiato del tempio di Wat Pho, alto 15 metri, lungo 46, interamente coperto d’oro, a due passi due dal Palazzo Reale.

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Lo racconto al Wat Arun dall’altra parte del fiume, che appare come un miraggio, anche lui frammento di sogno. Pezzettino. Lo confido al tramonto su Bangkok dall’alto del Wat Saket, il tempio in cima al Golden Mount, la montagna dorata – 318 gradini, tintinnio di campane thailandesi – che tanto mi ricorda l’ultimo, di tramonti, visto in Myanmar.

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Azzarda un rosa. Articola il giallo. Acceca di arancione. Affonda col rosso. Solo che in questo caso il rosso ha deciso di esagerare: affonda e poi esonda, coprendo ogni angolo di cielo. E certo che mi innamoro e certo che son fottuta.

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Lo dico ai battelli pubblici che attraversano il fiume Chao Praya .

E poi ne discuto con le oltre 10.000 bancarelle del Chatuchak Market, un labirinto disorientante ed esasperante di oggetti, vestiti, scarpe, robe.

A tutti loro parlo di me che tra 90 ore torno a casa.

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Invece non ne parlo a nessuna delle persone della mia vita. Nessuna.

Me lo chiedono da mesi quand’è che torno, ma io non rispondo.

Ho in mente di fare una sorpresa. E le sorprese necessitano di segreti e di silenzio. Ma c’è di più. Mi sembra che non pronunciandolo, non dicendo ad alta voce la data del mio rientro, io acquisisca un qualche potere decisionale sul mio impellente futuro. Cambio. Come e quando e quanto voglio. Quan-to-mi-pa-re. Se non lo dichiaro non esiste. Se non lo dico a nessuno, mica vero che finisce.

Ma bisogna finire. Lo so che bisogna finire.

Mi manca la mia famiglia. Da morire mi manca. Voglio abbracciare i miei genitori, i miei fratelli. I miei amici. Mi manca la mia casa. Voglio vedere i miei cani. Voglio respirare la mia campagna, la mia bassa. Voglio camminare per le strade della mia città. Voglio sentire le persone che parlano la mia lingua. Voglio parlarla anch’io. Voglio sdraiarmi sul mio divano. Indossare una gonna e una maglia carina. Truccarmi magari. Mangiare un panino al prosciutto, uccidermi di cappelletti.

Ma non so come si fa. A fermarsi. Non so come si fa. A disfare uno zaino, senza doverlo rifare dopo. A dormire in un letto solo. A rinunciare a questa sfrontata, pulsante, spudorata libertà.

Partire e tornare. Cosa vuoi aggiungere a due parole così?

Resti lacerato in entrambi i casi. Queste due parole sono uno strappo…di quelli preannunciati, dichiararti in origine. Nessun mistero. Nessuna fregatura. Non ti puoi lamentare, ragazza, lo sapevi. L’hai sempre saputo. Devi prendertene carico.

Come hanno fanno i templi dopo i terremoti.

I bastoncini d’incenso che servano – se non a riattaccarmi, se non a tenermi in piedi – a mantenere salda in me la memoria della sacra sequela di eventi, che a distanza di quasi un anno, mi ha portato fino a qui.

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– 48 ORE 

La fermata è Phrong Phong. L’indirizzo è 18 Soi Prommitr Sukhunvit 39 Rd. Il quartiere Sukhumvit.

Una distesa di hotel, condomini di lusso,  spa, che sembrano così inarrivabili, da qualsiasi punto di vista li si affronti. Opulenza allo stato puro. A gomitate si accaparrano pezzi di cielo. E quasi l’hanno riempito tutto.

Ma lei no. Lei non c’entra niente con quello sgomitarsi e tirare e spingere e alzare e alzare e alzare cemento. Lei è circondata da un staccionata in legno. E dentro, pure lei è in legno, su due piani, protetta da una vegetazione tropicale, affacciata su un laghetto. E`la cosa più fuori tema che io abbia visto. Non c’entra nulla. Mosca bianca. Gazzella tra elefanti. Stralcio di poesia, che appare dal nulla, in mezzo a una prosa sgrammaticata, di congiuntivi sbagliati.

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La Turtle House, la casa che fu di Tiziano Terzani si erge, in tutta la sua piccolezza, e, di certo, sembra non volersi accaparrare nessun pezzo di cielo.

Busso, ma sono sfiduciata; penso che nessuno mi aprirà.  Invece, dopo pochi istanti appare lui, Kamsing, il custode e giardiniere che ha vissuto insieme alla famiglia Terzani ( a Bangkok tra il 1990 e il 1994). E` lì da circa 35 anni. Kamsing, occhi che ridono. Kamsing, gentilezza d’uomo, premura. Mi fa entrare. Io mi sento improvvisamente spaesata, come se camminassi dentro la vita di un’ altra vita. Lo studio, la camera di Terzani, il pavimento in legno, le foto della famiglia, la vetrate a favore di natura. 

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Mi racconta dell’uomo. Del grande giornalista. Mi racconta della sua incredibile capacità di parlare tante lingue. Della generosità, anche con i vicini di casa. Della carica vitale. Della sconvolgente, incontenibile energia.

Gli voleva bene, Kamsing.

A me viene da piangere – come se mi avesse punto un’ape – dall’emozione di essere lì, nella casa di un uomo grande, e dallo scombussolamento interiore che mi attanaglia da quando sono a Bangkok. Lui, Terzani, ne riderebbe. Lui che amava le persone, ma rifuggiva fermamente alla tentazione di elevarli a miti, mi direbbe in toscano “Oh che tu fai?”

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Kamsing mi dice che la casa è in vendita. Se non verrà comprata, sarà abbattuta. Ne faranno cemento. Grattacielo ne faranno. Perché non la compri tu? suggerisce timidamente, con gli occhi pieni di speranza. Avrei una gran voglia di abbracciarmelo, avrei una gran voglia di credere che le case si possano comprare con banconote di sola volontà. Che basti dire me la prendo io, per potersela prendere davvero.

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Poi passeggiamo lungo il giardino, mi mostra la pietra sulla quale è inciso “Turtle House” e infine ci congediamo.

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Compro un mango alla fermata della metro e torno a casa. Penso, mentre il mango si scioglie nella mia bocca, alla fame di vita di quest’uomo. A quanto e a dove lo aveva spinto. A quanto e a come credesse nel genere umano. A quanto ci credo anch’io.

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E mentre osservo Bangkok dal vetro della metro, capisco che non è vero. Che mi sono sbagliata, tremendamente sbagliata…Non è come dice la canzone.

Non si tratta di buttare via lo specchio e di guardare il mondo. Si tratta di fare del mondo il proprio specchio.

Si tratta di riconoscersi in tutte le cose, in tutte le persone, nella natura tutta. C’è traccia di me ovunque. C’è traccia, in me, di tutta l’umanità. Tutto mi riguarda. Tutto mi include. Non posso tirarmene fuori. Non posso decontestualizzarmi dall’unico contesto possibile. L’unico in cui mi trovo, in cui respiro, sul quale poggio i miei piedi, dal quale nasce il mio sentire, nel quale sudo, produco, sottraggo, accolgo, raccolgo.

Se mi voglio guardare, devo guardarmi nel tutto.

Se mi voglio vedere, posso vedermi nel tutto.

Così tanto ci accomuna. Così tanto…

In ogni luogo in cui sia stata, ci sono persone che si scelgono, si innamorano si baciano, a volte per strada, a volte no. Ci sono persone che diventano famiglia, danno alla luce dei figli. Ci sono bambini e vecchi. Si manifesta l’amore dando da mangiare, in ogni luogo in cui sia stata. C’è un dio – o ce ne sono molti – a cui credere, a cui dedicare riti e preghiere. C’è una terra da coltivare, un corso d’acqua per bere, c’è una strada, c’è movimento, si canta in ogni luogo in cui io sia stata. Si piange di dolore. Si cerca di non procurane a chi si vuol bene.

C’è disparità, orrore, schifo, putridume? C’è ingiustizia, in ogni luogo in cui sia stata?

Ossì, per l’amore del cielo, c’è, ci sono tutte queste cose. Non una di meno. E ne ho avuto paura. Molte volte. Non una di meno.

Ma alla fine si tratta di decidere a quale delle immagini di questo specchio si vuole riporre la propria fiducia.

Alla persona che ti ha derubato, o alle 100 che ti hanno aiutato dopo.

C’è tanta di quella luce, in questa umanità, da restarne accecati. E io non ho nessuna intenzione di smettere di guardare

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– 24 ORE

Lei ha delle mani che sanno curare.

Il suo massaggio thailandese non risponde a nessuna delle domande che tormentano le mie ultime 24 ore di viaggio. Il suo massaggio thailandese non si prende cura della mia testa, ma del mio corpo, per un’ora e mezza.

Tira i muscoli, sciogli i legamenti, mi disarticola, mi sparpaglia, mi allunga, mi apre. Mi promette, senza proferire parola che tutto andrà bene. Che prenderò quel volo. Che tornerò a casa e che tutto andrà bene.

Suona una musica classica di cui ho memoria da sempre ma di cui non conosco il titolo. Di proposito non glielo chiedo. E`l’ultima colonna sonora di questa avventura. Facciamo che resti un mistero. Come misterioso è ciò che ha mosso i miei passi fino a qui.

Come è misterioso ciò che succederà da qui in avanti.

Come è misteriosa quella fame di vita che ci tiene in vita.

Quei sì e quei no che compongono un’intera esistenza, e nei quali un’intera esistenza è riposta.

Quegli istanti illuminati, rivoluzionari, sconcertanti in cui avverti, con schiacciante certezza e febbricitante sgomento, che qualcosa ti sta chiamando per nome e che non c’è nient’altro che tu possa fare, se non partire.

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Canzone consigliata per la lettura: “Archipelago” di Mirah

Canzoni che hanno accompagnato questo pezzo, conclusivo, di viaggio: “La canzone dell’acqua” di Eugenio Finardi, e un brano  di musica classica di cui, per l’appunto, non so nulla, se non che ha sancito con dolcezza, cura e saggezza  la fine del mio giro del mondo in solitaria da ovest a a est, permettendomi, in qualche modo, di tornare a casa.