Sto per spararti in faccia – proprio sulle gengive, sul naso, sulle tue gote rosa belle- sto per spararti in faccia una bestia di frase.
Sto per spararti in faccia – lo sto facendo, mi dispiace ma devo farlo – tra quei denti dritti e quell’arco così spaventosamente irresistibile di fossetta, una frase di quelle che ti senti spacciato poi.
Sto per spararla, eh.
1…2…3:
Lascia andare.
Ecco, l’ho detto.
Buttala giù tutta d’un fiato come i pilloloni giganti di antibiotico, che la trachea deve imprecare tutte le volte. Buttala giù con un sospirone e basta così; ormai è andata. Il più è fatto. Ricomponiti. Ritrovati. Riprenditi. Rilassati.
Ma poi fallo, però: lascia andare, perlamiseria!
KOH LIPE
Il primo lembo di terra che vivo in Thailandia è lei. E`Koh Lipe.
Un triangolo scaleno di isola. Piccola. Verde e sabbia. Koh Lipe nel mare della Andamane, ai confini con la Malesia.
Una bomboniera. L’ultima matrioska. Una robina preziosa, sottovoce.
Ci arriviamo che diluvia. Diluvio universale. Per me diluvio universale e mare è malinconia al quadrato. E`ennesima potenza di malinconia.
La pioggia-sabbia-spiaggia, il sole rifugiato politico nascosto d’un bene, i vestiti appiccicati addosso fradici, il mio zaino più pesante, i capelli più annodati, le strade allagate che ti bagni fino a metà gamba. Fino a metà gamba, ché a Koh lipe c’è un evidente problema nello smaltimento dell’acqua piovana, direi.
E`la malinconia più al quadrato che io conosca.
Koh lipe, le chiedo, per favore non piovere più.
E lei mi risponde, d’accordo ragazza.
Ma mica subito. Aspetta due giorni e poi si prepara a sganciare un sole, un cielo, un mare, un caldo, una pace, una brillantezza che io non smetterò mai più di dirle grazie.
Come sei bella, piccola matrioska-robina preziosa-triangolo scaleno-verdesabbia -sottovoce.
Ci arrivo a Koh lipe che siamo in 5.
Tre di nazionalità cinese, residenti a Penang (che però si fermeranno solo il tempo di un weekend), due di nazionalità italiana in viaggio per il mondo, io e Valentina.
Il nodo portante che ha permesso questo bizzarro connubio è Cheu Ping. Incontrata da Valentina in Indonesia durante una serie di immersioni e arrivata a me tramite la proprietà transitiva delle conoscenze. Cheu Ping, le dico, io sono stanca morta, viaggio da gennaio ed è novembre ormai. Consigliami un’isola dimenticata da Dio, e ricordata da Dio al tempo stesso.
Koh lipe, dice Cheu Ping, se la vuoi dimenticata e ricordata.
Sì, la voglio proprio così. Esattamente così.
Anche Valentina la vuole proprio così. Esattamente così.
E quindi adesso, senza mezze misure, tu Koh Lipe, sei nostra.
Io e Valentina passiamo un giorno intero a cercare un posto in cui dormire. Fingiamo trattative alle reception di resort di lusso sulla spiaggia, che chiedono 40 euro a testa e che non ci potremmo permettere mai. Vogliamo la nostra stanzetta low cost, ma la vogliamo in una zona comoda, la vogliamo carina, la vogliamo con un letto e non un materasso buttato alla bene e meglio per terra. Insomma, decisamente, vogliamo molte cose, ma, alla fine, le otteniamo tutte. A circa 6 euro a testa, la nostra Mama’s guesthouse. In centro, comoda, con il tavolino e le pareti viola, il ventilatore – marchingegno infernale che io detesto e che Valentina si spara in faccia a tutta velocità per tutta la notte – un bagnetto grazioso con le enigmatiche mattonelle di Hello Kitty e due finestre.
E`questa una settimana di tempo sospeso, ricco, lento, composto, ovattato. Questo è un tempo che lava via. Un tempo nel quale invece di accumulare mi muovo per sottrazione. Di spazio, dentro di me, devo accettarlo, non ce n’è quasi più. Sei al limite, ragazza mia, dice il poco spazio rimasto dentro. E infatti ho ammassato così tanto tutto che ormai anche i pori della mia pelle, anche le punte dei miei capelli, anche le ciglia e i denti stanno dicendo: adesso, fidati, basta così. Se la spugna non viene strizzata non assorbirà nuova acqua. Neanche una goccia. Io ora, senza troppi giri di simaforseinvecepotrei, devo strizzare. Vorrei continuare a fagocitare tutto il reale, che è un’ostia santa che salva da tutto ciò che reale non è. Che orami lo so bene, tutta la verità è compresa lì.… Nei passi, nel fango, nella strada; in tutto ciò e in tutti coloro che la strada contiene, la verità. Se c’è una cosa che si impara dopo tanti mesi continuativi di viaggio è che c’è una bella differenza tra immergersi e pensare di immergersi. C’è una bella, sostanziale, ingombrante, definitiva differenza. E se anche il pensiero dell’immergersi fosse il più puro, il più alto, il più responsabile e consapevole, non c’è alcuna possibilità che tu possa anche solo avvicinarti all’esperienza di corpo solo in sola acqua. Di corpo nudo in nuda acqua. Il corpo ha bisogno di fatti. il corpo ci sputa sopra alla pratica dell’idealizzare. Il corpo la schifa la pratica dell’edulcorare. Il corpo la vomita la pratica del sublimare. Il corpo non sa mentire. Non può.
Vuoi la verità? Mettici il corpo. Vai a vedere. Ti ci portano le gambe a vedere. Prima ancora del cuore, sono i piedi che comprendono la verità. C’è più saggezza nell’alluce del piede destro, nell’indice o nel mignolo della mano sinistra, nelle vesciche e nei calli, che in qualsiasi pensiero astratto, a parer mio. Anche se ce lo siamo curato bene, il pensiero astratto. Anche in quel caso lì
Allora quindi, io a Koh Lipe strizzo la spugna (che mica significa gettarla, anzi!) e vivo di di quel piccolo tragitto che dalla stanza ci porta al mare, passando per il supermercato e la bancarella di spiedini di maiale e quel garage dove saldano dal mattino alla sera e quel resort con quelle stanze tutte bianche, enormi, dove abbian lasciato il cuore e quella serie infinita di bungalow di legno così stentati, così schierati, così scrostrati, fino ad arrivare a lui, al nostro ristoranti sul mare -Il Sunrise Beach Restaurant – dove non abbiamo saltato né una colazione, né un pranzo, né una cena.
Lì e basta. Con lo sguardo verso il mare, i piedi infilati nella sabbia, e i gamberi in pastella, e gli spaghetti di riso con i frutti di mare e le insalate agrodolci, il massaman curry e quel pancake al mattino che a me fa perdere il senno. Ci conoscono ormai, ci aspettano, ci anticipano. Sanno cosa oridineremo, cosa ci piace e cosa ci fa perdere il senno. Un ristorante a totale gestione femminile. Con dei sorrisoni che volano a dritta e a manca. Avanti e indietro, con i piedi che affondano nella sabbia, con i piatti in mano, affaticate, stanche, sudate, mamme, belle. Un giorno le vediamo prepararsi a un rituale. Si schierano di fronte al mare, si tengono per mano, offrono frutta e pregano. Donne schierate che si tengono per mano. Trattengo il fiato. E`già rivoluzione. E`già bomba atomica, senza bomba atomica. E`potere innato, ereditato: dalle viscere della terra arriva, nelle loro viscere risiede. Le donne insieme sono un miracolo e non c’è nulla, in questo universo, che le possa spezzare. Sgualcire forse, spezzare mai
E poi c’è l’isola che facciamo passare sotto i nostri passi. Allontanandoci dalla spiaggia scopriamo bungalow abbandonati, sbrindellati, che tanto mi ricordano Gili Meno, in Indonesia. C’è sempre una parte che cade a pezzi, e casualmente è sempre nascosta, periferica. Non siamo poi così diversi noi. Nessuno ha voglia di mostrare ciò che si è rotto, ciò che, probabilmente, non tornerà più come prima, ciò che fa male e che con estrema fatica si tenta di aggiustare (le volte che si tenta di aggiustare).
Io definisco il grado di intesa con un altro essere umano in base a quattro fattori: il modo in cui si parla, il modo in cui si ride, il modo in cui si canta e il modo in cui si mangia. Io e Valentina parliamo dal mattino alla sera, ridiamo come pazze ubriache, cantiamo molto forte e molto male, ma soprattutto mangiamo da disgraziate. In quasi un anno di viaggio non ho mai mangiato così tanto come a Koh Lipe. E poi ci facciamo una lista dei 10 libri imperdibili. Lei mi fa la sua e io le faccio la mia e un solo libro appare in entrambe. E prendiamo il sole e il mare e ci facciamo rimestare le ossa e le articolazioni tutte dalle massaggiatrici thai. Noi urliamo, loro ridono. E poi io mi compro addirittura un vestito e lei azzarda a molto di più e si tatua Ganesh. Se lo fa tatuare sulla schiena, col metodo antico, col bamboo, un puntino alla volta. Il dio elefante, le sue tante mani i suoi tanti simboli e suoi tanti – incantevoli- significati. I tanti puntini di Ganesh dall’incompiuto al compiuto. Dal ci siamo quasi, al finito. Io le compro dell’ananas. Lei soffre da cani e dopo circa 10 minuti, a dispetto delle 2 ore a cui deve andare incontro, mi dice: non penso di farcela. E invece ce la fa.
Ganesh e la sua proboscide a proteggerci e noi passeggiamo di sera nell’unica viuzza centrale, ma alle 21 30 siamo già a letto, tutte e due distrutte. Perché questo è il tempo di strizzare la spugna e mi sembra che non si possa fare altro.
Quindi ci credi? E`già passata una settimana
Non ci credo, ma è così
Allora hai deciso? Vai a Chiang Mai, al festival delle lanterne?
Sì. E tu torni a Penang?
Per un po’ sì…e poi dovrò capire cosa fare con le mie cose che ho lasciato nell’ostello a Kuala Lumpur.
Sorrido…Valentina è tutta sparpagliata per mezzo sud est Asiatico e adesso anche un po’ nel mio cuore.
Delle tante cose che non so fare, in una splendo.
Io non sono capace di lasciare andare. Lo faccio, eh. Non che non lo faccia, lo faccio. Lo faccio senza drammi e senza protestare (fuori); lo faccio con infiniti drammi e infinite proteste (dentro).
Devo dirmi: 1…2…3: Lascia andare.
Devo dirmelo. Devo lanciare questo messaggio nel sangue. Devo chiedere ai globuli rossi di portarlo ovunque, insieme all’ossigeno, e di non dimenticarsi nemmeno un angolino di me.
Devo dirmi 1…2…3.
Senno non ci riesco. Senno non sono capace.
CHIANG MAI
Se si potessero sostituire le parole con la luce, io potrei restituire in poche righe cos’è stato e cos’è il festival delle lanterne a Chiang Mai. Se le vocali e le consonanti risplendessero, se le “o” improvvisamente si infiammassero, se le “i” decidessero di fare da stoppino, se le linee delle “V” diventassero ali roventi, forse allora, solo allora, potrei riuscire a raccontare il festival delle lanterne a Chiang Mai.
La luce.
Gioia di luce. Fame di luce. Bagno di luce. Buio di luce. Preghiera di luce. Le lanterne in aria; puntini di fuoco che sembrano fitte costellazioni sconosciute, la cui vita si riassume nel tempo di una notte.
E poi è la volta del Loi Krathong, il “cesto galleggiante”. E in effetti deve galleggiare, perché viene affidato alle correnti del fiume Ping. Nel mio ostello Koi ha preparato tutto il materiale per far sì che ognuno di noi possa costruire il proprio.
Per la base si utilizza la pianta di banano, poi vengono aggiunte foglie, fissate con spilli da sarta, e infine fiori, quelli che abbiamo a disposizione sono gialli e viola. Realizzo con molta cura il mio Krathong, poi inserisco incenso e una candela, alcune monetine, che sono tributo al fiume e poi, e questa è la parte che mi appassiona di più, un capello e un pezzettino d’unghia.
Spesso, quando ci si approccia a riti di questo tipo, il nostro inconscio si prepara a lanciare un desiderio, un’aspirazione, un sogno. Ma il senso del Krathong è molto più complesso. Non ciò che vuoi, ma ciò che non vuoi più. E`ciò che devi – ancora più di vuoi, devi – lasciare andare. Le ultime appendici di te – unghie e capelli simbolicamente – che non portano più a nulla, che devono essere rinnovate, che sono trite e ritrite e che adesso, per favore, basta così . Il fiume – grazie con tutto il cuore che ho, fiume – si prende l’onere di lavare via tutto, di togliere, di strizzare. Ancora una volta sì, strizzare. Alcune ragazze mi aiutano ad accendere la candelina. Sono preda di una strana trepidazione quieta. Condividere questo momento con migliaia di persone fa salire l’adrenalina, ma, soprattutto, il fatto che queste migliaia di persone, esattamente come me, abbiano voglia di potare, di sradicare i sentimenti, gli stati d’animo e le attitudini ormai secche, inutili, prive di linfa, riempie l’aria di fiducia verso il genere umano. A me riempie di fiducia il fatto che su questo fiume, ora, si stia chiedendo, in breve, di essere persone migliori.
Un sospiro, il mio krathong tocca l’acqua, barcolla, si assesta, e in un pochi secondi è già lontano, in mezzo a tutti gli altri. Io lo seguo per un po’, poi mi allontano anch’io. Il fiume sembra dirmi, senza mezze parole: adesso che hai lasciato andare, concentrati su quello che resta. E poi vai a cantare e a ballare e a folleggiare. Festeggia quest’atto di coraggio.
Attraverso l’Iron Bridge, e proprio sulla riva opposta appare una coverband che sta sputando l’anima. Poi tavoli, sedie, birre, succulento street food thai, megafrullati, ragazzi che vendono krathong e luci – facile da immaginare – dappertutto.
Mi prendo una birra e sto in piedi davanti al palco. I 5 componenti della band propongono un repertorio che rimbalza tra UK e USA. Il chitarrista mi sembra Santana. Cioè se Carlito fosse asiatico avrebbe, lo giuro, quella faccia lì. Il gruppo fa quello che deve fare un gruppo: sudare, ballare e darci dentro con voce, polmoni, braccia e dita. Stravolgno i loro strumenti, li fanno scottare…e anche questo, non di meno, mi aspetto da un gruppo. Sotto il palco cantiamo e balliamo in tanti, riconoscendo la musica, riconoscendoci nella musica, riconoscendo che la musica ci riconosce.
Adesso sono gli Oasis a ricordarmi quel periodo della mia vita in cui cantavo senza protezione alcuna che Sally poteva aspettare (And so Sally can wait…) e soprattutto di non guardare indietro con rabbia (But don’t look back in anger)…quasi a marchiare questa serata, io ballo ed è tana libera tutti per le 1000 sensazioni che mi brulicano dentro, e se ci fosse anche solo un briciolo di rabbia è già lontana, se l’è presa il fiume Ping, e bevo birra e penso a una delle cose che nella mia vita ho dovuto lasciar andare con più sofferenza: il mio gruppo, i Pecksniff, e quel mistero elettrico, quella privilegiata struggente connessione di quando la musica ti riconosce e tu riconosci lei e sei un tutt’uno col palco, con chi è sul palco con te e con chi ti ascolta dall’altra parte.
Il giorno dopo assisto a un rituale, in uno dei war più antichi di Chiang Mai, il Wat Phra Singh. I monaci sono immersi in un giardino di luci, pregano. Luci sugli alberi, luci nella sabbia, l’arancione delle loro tuniche. Luci di candele stagliate su una luce fredda lunare, ma così tremendamente regina. Luci ovunque, foresta di luci, tappeti di luce, luce che esonda come un fiume, luce fiume.
Non puoi aver paura in una notte così. Non puoi non aver voglia di cambiare in una notte così.
E poi rivedo Ludo e Nicola – sono qui grazie a loro, me l’hanno detto loro, mentre eravamo in Indonesia insieme, di questo festival – ci abbracciamo forte, ci stringiamo fino al midollo. E insieme ci avviamo verso un altro tempio…alcuni monaci vendono le lanterne. c’è anche un pennarello. Puoi scrivere. Puoi scrivere prima di lasciare andare il tuo pensiero infuocato.
Io penso a quelle volte in cui ho provato un sentimento travolgente, imperativo, prepotente, magnetico. Penso a tutte le volte che ho vissuto un momento perfetto, porcogiuda, per-fet-to.
Penso alle persone che mi hanno cambiato la vita. Penso alle persone di cui non posso fare a meno, ché pensare di perderle mi farebbe sentire come se perdessi una gamba o un braccio o un occhio o la voglia di sorridere. Eppure ogni volta che ho detto: vorrei non cambiasse mai, vorrei non finisse mai, sono stata io stessa l’inevitabile inizio del cambiamento; sono stata l’inizio della fine di quello che, ingenuamente, volevo mantenere intatto, cristallizzato. Quando ho sentito di voler tenere, di non riuscire a pensarmi in modo diverso, di non riuscire a immaginarmi più felice di così, ho introdotto un elemento che purtroppo, in questi casi, gioca a grande sfavore: la paura.
Ogni volta che ho paura di perdere, inizio a perdere, per forza. E quindi mi accanisco e mi imbottisco di dolcissime balle. Non cambierà, non preoccuparti…non cambierà.
Ma non può non cambiare. Non può. Non posso io, non può il sentimento, non può il destinatario del sentimento, qualunque sia la forma e la sostanza e il contenuto e il peso specifico del sentimento stesso.
Ogni volta che combatto il cambiamento, decido volontariamente di infliggermi frustrazione e dispiacere. Perché il cambiamento non può essere combattuto, e se sto lottando contro di lui, sono schierata dalla parte sbagliata.
Forse non dovremmo dire a nessuno “Non cambiare mai…resta così”
Già da quando si è bambini, nessuno dovrebbe dirci “ Non cambiare mai, grazioso meraviglioso esserino…me lo prometti che non cambierai mai?”
Ma dai smettila. Non dire stronzate, perfavore.
“Cambia” dovremmo dire alle persone che amiamo. “Cambia tutte le volte che ti pare. Diventa tutto quello che vuoi, anche quello che non sono in grado di riconoscere. Anche quello che non riesco ad amare come prima. Anche quello che di te ho perso e non tornerà. Anche quello che non capisco e mi ferisce.”
Cambia, perdio, trasformati, stupisci te stesso, spalanca occhi e bocca di fronte a quello che sei in gradi di diventare. Grazioso, meraviglioso esserino, ti rendi conto di quanto sei in grado di diventare?
Non è rassicurante…è vero. Ma è reale. Come corpo solo in sola acqua. Come corpo nudo in nuda acqua.
La lascio andare?
Sì
Sono emozionata…Che scema eh?
Non sei scema. Tutt’altro.
La lascio andare, quindi. E non devo nemmeno contare 1..2..3
La seguo per un po’, accenno un ciao con la mano, poi guardo Ludo e Nico, me li prendo sottobraccio, uno a destra e l’altra a sinistra, camminiamo verso il Bazaar night per comprare qualcosa di inutile, mangiare qualcosa di utile e salutarci come si deve.
Sono di nuovo sola, spugna strizzata senza un briciolo di piano, senza un’idea precisa di dove andare, cosa fare e dove condurre i miei futuri passi. So solo che tra meno di un mese sarò a casa. So solo che ho un biglietto da Bangkok a Milano. Nel mio letto ripenso alle lanterne, ripenso agli elefanti riscattati, che ho visto 2 giorni prima in un centro nelle campagne di Chiang Mai. Ripenso al timore reverenziale di fronte a quella pelle grigia, dura e ispida come una noce di cocco, che ho avuto la sfrontatezza e il grande dono di poter toccare.
Ripenso a quando li ho lavati nel fiume e alla banana che uno di loro ha preso dalle mie mani. A quanto mi batteva il cuore, a quanto mi veniva da sorridere, al contatto di quella proboscide che sembrava volermi abbracciare, che ha la forza di ucciderti e il garbo di sfilare un singolo filo d’erba; e infine penso a Ganesch tatuato per sempre sulla schiena di Valentina. E con questo ultimo pensiero cado in un sonno profondissimo, che nemmeno il ventilatore è in grado disturbare.
Il giorno dopo, al mio risveglio, arriva un messaggio
Patti, sei ancora a Chiang Mai?
Ancora qui…Tu, sei ancora a Penang?
Ancora qui. So cosa dobbiamo fare.
(adoro che utilizzi il plurale)
Ah si? E che cosa?
Andare in Myanmar. Riesci a procurarti il visto da lì?
Certo che ci riesco.
Ci vediamo a Yangon tra tre giorni.
Ci sarò… a Yangon tra tre giorni
A volte, nella mia vita, ho fatto fatica a lasciar andare anche chi non aveva fatto nulla per restare.
Ciò che deve andarsene, che se ne vada. Come le unghie e i capelli nel mio Krathong.
Che se ne vada.
Vorrei essere in grado di affidarmi al fiume, di seguire con fiducia il corso degli eventi, di combattere sempre a favore del cambiamento mio e di coloro che amo, di non trattenere mai, anche se si trattasse di puro stato di grazia; di puro, purissimo amore.
Non ci appartiene nulla.
E poi è così evidente…. Tutto ciò che deve restare nella nostra vita farà, magari, dei giri incomprensibili, muterà pelle mille volte, sarà irriconoscibile ai nostri occhi, sembrerà perso per un tempo indefinito (un tempo sul quale non abbiamo nessun potere decisionale), poi, un giorno, un bellissimo giorno, con l’animo incandescente che lo contraddistingue busserà alla nostra porta.
Sono nuovo, e sono di nuovo io.
Certo che sei nuovo, certo che sei di nuovo tu. Bentornato, entra.
Canzone consigliata per la lettura: E`vero, dovrebbe essere “Don’t look back in anger” degli Oasis, e io dico di ascoltarla, ma poi, visto che questo è un post molto lungo, fidatevi: “Tender” dei Blur, lo concluderà nel migliore dei modi
Alcune delle foto che ho inserito sono di Valentina, altre di Ludovica e Nicola, ma le più brutte, non potete sbagliarvi, sono mie.