“La cura per ogni cosa è l’acqua salata: sudore, lacrime, o il mare.”
L’ho letta, questa frase, una volta per caso e mi ha fatto tremare perfino i capelli.
Chi sei tu, anima bella, che vai in giro per il mondo buttando qua e là verità spaccaossa?
Sono Karen Blixen! Mi risponde l’anima bella.
In realtà non lei, di persona, perché è morta nel 1962. Parla per lei Wikipedia, che sa sempre tutto di tutti. E mi dice pure, sai cosa? Karen mica era bella, però aveva fascino e carisma e “la dote straordinaria di piacere alla gente”. Ah ecco.
Ma tu Wikipidia che parli come se l’avessi conosciuta, adesso mi fai arrabbiare davvero, macchenessai di Karen, dico io. Quali sono i tuoi standard, che ti senti di poter dire tu piaci e tu invece no? Dalle foto che vedo, era bella eccome, Karen. Col sorriso dolce e il mento spigoloso, con gli occhi infossati all’ingiù, da cane – direbbe la mia amica Francesca, che studia tutte le forme degli occhi- con gli occhi grandi di chi guarda per davvero, sotto la superficie, sotto l’apparenza opaca e spiacevole delle cose, con gli occhi santi di chi sa che la cura di ogni cosa è l’acqua salata.
Io ci resto secca con te, Karen mia. Perché se c’è una, su questa terra, che ha ragione da vendere, quella sei tu. Tu con i cuoi occhi da cane.
L’acqua salata è davvero la cura di tutto.
Il Sudore. Datti da fare, chiudi quella bocca, taci una buona volta e datti da fare. Alza il culo, muovi i tuoi passi sulle strade di questo mondo. Cammina e corri per centinaia di km, e poi suda, suda! Che è bello sudare, anche se a molti fa schifo, ma è di un bello invece, il corpo che trasforma e butta fuori. Fuori tutto. Anche il dolore fuori, le preoccupazioni, il mal di cuore e il mal di vita. Fuori!
Le Lacrime. Piangi un po’, dai. Appoggiata a qualcosa magari, a un pezzo di legno, a un pezzo di muro, a un pezzo di spalla, di qualcuno che gentilmente te la presta mentre piangi ( un lusso da non dimenticare), o attaccata a un finestrino di qualche autobus, anche. Sul tram, come dice la mia amica Stefania. Che fuori vedi solo cose belle e dentro vedi solo cose da piangere, diosanto. Fallo dunque. Senza ritegno, senza pudore. Fallo da scriteriata. Fuori tutto!
E poi c’è il mare.
E poi, grazie a Dio, c’è il mare.
Ci sei arrivata, magari con fatica. Dopo un numero di antibiotici, che solo a pensarci ti gira la testa. Dopo aver vomitato anche l’anima insieme al tuo coraggio; dopo aver superato un’infezione intestinale che ti ha preso a pugni, finché non sei caduta a terra ko.
E l’infezione intestinale vince! E così si conclude questo round, su questo ring…e ora che qualcuno abbia la decenza di andare a raccogliere la sfidante in poltiglia, suvvia!
KO per me.
KO che però, se aspetti un attimo, un attimo solo, occhio, si trasforma in OK.
Un attimo, questione di posizioni, questione di cambiare le lettere, questione di spostare. Questione di spostarsi, di fare lo zaino, le solite 3 cose in croce che hai già messo e rimesso e che rimetterai per un anno intero. Questione di spostare il corpo tutto, di piangere lasciando Alice e Rita a Oaxaca. Questione di pensare a quanto sei riuscita a ridere, invece, insieme a loro, con una stupidera cogliona by Italia e Francia, che ti ha fatto alzare dal letto, trascinandoti, anche se non ne avevi voglia.
La forza che tiriamo fuori per stare con qualcuno che ci piace. La forza di reagire, di prendere il collettivo per andare a vedere Monte Alban. Le rovine precolombiane “aliene” dico io, che sembrano portate lì da chissà chi: una nave extraterrestre, forse, di gente, dentro la navicella spaziale, con un gran gusto estetico, è certo. Dei designer alieni. Più bravi anche di quelli che stanno a Milano.
Il monte brullo, erba secca, bruciata, e nuvole basse sulla testa e un panorama, da lassù, che continui a deglutire, ma mica sei tu: sono gli occhi che lo ordinano alla saliva e le dicono manda giù questo boccone di bellezza, che se lo mandi giù è tuo per sempre e ti fa meglio degli antibiotici.
E anche la cascate pietrificate di Hierve el Agua ti fa bene. Questo paesaggio lunare e salvifico (fatti salvare da questo posto!) che lo tocco con tutte le dita, con i piedi, con la testa, con i pensieri e col cuore mio. Il calcare che ha solidificato, in anni e anni, come si solidificano le alleanze, le amicizie, le energie, la colla attak su cocci di vaso rotti, dando forma a geometrie perfette e dure e allucinanti. E l’acqua che si è appoggiata in questa piscina di calcare e che accoglie tutti i Narcisi del mondo e le loro immagini riflesse. Chiunque tu sia, la tua immagine riflessa nell’acqua. Specchiati lì che magari ti riconosci. Per la prima volta, magari. E perché no? ti piaci pure, magari. E quell’unico albero che è confine verticale che spezza l’orizzonte di monti e acqua e calcare e pensi che se dovesse cadere, quell’unico albero spoglio, cadrebbe tutto. Tutto, vi dico. Che quella verticalità è l’unico spiraglio di realtà in un luogo onirico fino all’inverosimile, che sembra di essere in un set cinematografico, magari dentro un videoclip di David Bowie.
Ciao Rita, ciao Alice.
Allora cosa hai deciso di fare, scendi o sali, querida?
Città del Messico, col suo caos poetico e devastante o l’Oceano Pacifico col suo mare selvaggio spaccacuore?
Tutte e due le cose non posso farle. Lo so, porca misera. La fatica di dover scegliere. La fatica di non poter arrivare ovunque, la fatica di sentire che il viaggio tira e chiama…e c’è altro da vedere, sai? e il Messico prima o poi lo dovrai lasciare. Tutto non si può. Scegli.
La fatica bestiale di scegliere, santo cielo. I limiti miei. Che ovunque non posso arrivarci, neanche se mi spalanco tutta con le braccia e le gambe.
Allora facciamo così, mi affido a te Karen.
Scelgo di guarire del tutto. Scelgo l’acqua salata. Scelgo il mare.
“Ciao volpe, coraggio!” mi scrive Lucia, la mia storica insegnante di teatro, insieme ad Ilaria.
“Prenditi tutto il tempo che ti serve per recuperare. La volpe ti assomiglia: dolce ma selvatica e imprevedibile”
Lucia, che in teatro posiziona le luci. Lucia che è tutta luce, a iniziare dal suo nome. Quando il nome è una vocazione. Lucia che una volta mi ha detto: il corpo sai, è forte. Il corpo è più forte di quanto credi. E me l’ha ripetuto anche mentre mi preparavo all’ultimo spettacolo dove, nei panni di Dorothy, venivo sballottata da tutte le parti e calpestavo i corpi dei miei compagni di palco che mi sollevavano e facevo capriole sulle loro schiene e mi sentivo male ed era tutto uno scusarsi… Scusa per il mio peso, per non essere un fuscello, per il male che ti procuro, per la stanchezza che provi.
Smetti di chiedere scusa, mi dice Lucia. Il corpo è forte. Lo possono sostenere il tuo corpo, sai? E il tuo corpo stesso potrebbe, a sua volta, sostenere il loro.
Sei più forte di quanto credi.
Cosa ne pensi tu Oceano Pacifico?
Tu che sei forza pura, potenza pura. Tu e le tue onde matte e furibonde, ma poi d’improvviso così concilianti e apparentemente docili.
Tu che mi accerchi come dovrebbe fare un amante che ti ama davvero. E arrivi da sinistra e da destra e mi tiri degli sberloni mentre mi butto di testa nelle tue onde, per affrontarti, per dirti che ci sono. Ma non mi inoltro mai troppo in là. Perché fai paura anche. Perché sei pericoloso anche. Perché lo rispetto quello che sei. Io così finita, tu così infinito.
Non mi inoltro, che la sabbia sotto i piedi la devo sentire. Non mi faccio portare via da te.
Col cuore sì. Il cuore me l’hai portato via da giorni ormai. Appena sono arrivata a San Agustinillo, dopo un viaggio di 8 ore duro duro. Ti ho sentito ma non ti potevo vedere, erano le 7 di sere e qui, in Messico è già buio-nero-pece. E dovevo trovare una camera ed ero stanca e accaldata e avevo anche fame.
Ti ho sentito, che già mi tiravi per la mano, quasi a dirmi adesso vieni a dirmi ciao, poi fai tutto il resto.
Ma invece, ti ho fatto aspettare io. Per una volta, accidenti, mi sono data un tono! Ho trovato il mio nido, a un prezzo ragionevole. Mi sono fatta una doccia fredda, ho pagato le prime notti e ho indossato una gonna (l’unica che ho). Non mi sono truccata – non mi trucco più da quando ho iniziato a viaggiare, perché mi sembrerebbe stano- ma ero, tutto sommato, carina.
Ho trovato un ristorante sulla spiaggia con le candele accese e mi sono seduta. Era la sera di San Valentino e io ho cenato con l’Oceano Pacifico. E adesso sfido chiunque ad avere avuto una serata più romantica della mia.
L’Oceano che sbatte e ulula. L’inquietudine dell’oceano, che non è poi così diversa dalla mia. La forza brutale dell’oceano, la forza selvaggia e irragionevole dell’oceano.
Ma la dolcezza anche. La premura. L’accoglienza. La grandiosità. La maestosità. Il turbamento. Il sale nell’oceano. Che adesso sono tutta sale anch’io. Ce l’ho addosso anche dopo la doccia. Perché arriva ovunque, nelle ossa pure.
La poesia dell’oceano, con il suo tramonto, che mi ha dato il colpo finale. Quando non hai abbastanza occhi per capirlo, per catturarlo, per credere che sia vero, che non sia una balla, uno scherzo inopportuno della mente, una copia di qualcosa che hai solo avuto la pretesa di immaginare.
Ho lasciato San Agustinillo, che era una strada sull’oceano con ristoranti e pescatori e un piccolo negozio – e che mi ha letteralmente stregato nella sua ricca semplicità – e ora sono a Zipolite, che è un altro paese piccolo della costa, con un centro però.
Ho realizzato due sogni nel giro di un giorno: dormire in una cabaña sull’oceano (che un Massimiliano, l’ennesimo che incontro sulla mia strada, ha avuto il buon cuore di lasciarmi a un prezzo per me sostenibile, e quindi a poco) rustica di legno e paglia con la zanzariera sul mio letto e una scaletta per arrivarci. Piccola, con armadietti di bambù e lenzuola bianche e cuscini morbidi e formiche che ogni tanto mi vengono a trovare e gli uccelli – che sono sempre i primi pensieri del mondo, ho letto una volta – come sveglia personale. E io e l’oceano non ci molliamo mai. Allacciati. Avvinghiati. Un lucchetto, una catena, siamo. Neanche di notte lo lascio, e ceno sotto le stelle, appollaiata sulla spiaggia, insieme a Jenny e Flor due ragazze argentine che ho conosciuto qui (nuova incantevole stupidera cogliona by Italia- Argentina). E col naso all’insù guardiamo la luna mentre ci mangiamo la pasta dentro il tapper e beviamo vino cileno e ringraziamo per la perfezione inconcepibile del momento, e diciamo meglio di così non si può stare. Più di così, non si può avere. Non ce la farò mai ad andarmene de qui. Non ti lascio mai oceano mio, neppure adesso, mentre esaudisco il mio secondo desiderio: scrivere sul mare. Averlo davanti mentre digito lettere, mentre cerco i contenuti e lui, generosamente, mi fa da contenitore. Sentirlo mentre penso pensieri e parlo parole e dimentico, per un po’, ogni paura. Una bomba di luce: questo sei tu.
Io non sono tipo da Caraibi. Adesso ce l’ho chiaro. Io sono una volpe. Sono una da Oceano.
Ed è qui che è arrivata. La mia pace.
La mia pace, sul Pacifico.
Quando il nome è una vocazione
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Canzone consigliata per la lettura: “Ground Control to major Tom” di David Bowie