
In un piccolo parco a Ekaterinburg, Urali, ho visto morire un uomo.
Gli stavano facendo un massaggio cardiaco quando sono arrivata. Hanno continuato per almeno dieci minuti.
La pressione esercitata con le mani era disperata e feroce. Non volevano lasciarlo andare: era già andato. A intervalli, gli tiravano le gambe. Sembrava, quel corpo, un pupo siciliano. Un fantoccio scomposto, esanime, martoriato, bistrattato nelle giunture, nei tendini.
A un piede mancavano una scarpa e una calza. Le cercavo nel prato con gli occhi. Mi era insopportabile la visione di quel piede nudo. Per qualche minuto non ho pensato ad altro. Volevo gli fosse restituita la scarpa, che gli fosse dato decoro. È arrivata l’ambulanza. Erano cinque. L’hanno sollevato come se fosse stato un sacco, materiale biologico, non uomo, non sangue e ossa e organi e pelle. Nessuna storia dentro quella cassa toracica. Gli sono scesi i pantaloni, le mutande. Nudo fino alle ginocchia. Vicino a me una donna ha osservato tutta la scena mangiando una pannocchia di mais. Poco lontano dei ragazzini ignari si sfidavano con gli skate. L’ambulanza non è nemmeno partita. Hanno cercato di rianimarlo lì. Ma era morto. Da tanto tempo, oramai.

Nel 1918 tutta la famiglia Romanov, composta dallo zar Nicola II di Russia, sua moglie e 5 figli fu assassinata a Ekaterinburg dai bolscevichi.
Ganina Yama era un pozzo, e lì a pochi km dalla città, furono gettati i corpi. In seguito furono spostati e gettati altrove, in una fossa, la cui localizzazione rimase segreta.
Ma le ricerche dei corpi proseguirono nel tempo, finché non vennero ritrovati negli anni 90. La Chiesa Ortodossa li fece martiri e venne costruita una cappella per ogni componente della famiglia reale. Ognuna è fatta in legno e il monastero di Ganina Yama si trova all’interno di una foresta.
“Li hanno cercati per decenni, perché era importante dargli una sepoltura” mi dice la ragazza dell’ufficio informazioni. “Capisci?”
“Sì. Capisco”

Com’è possibile affermare che viaggiare sia una pratica di disconnessione, di scissione dalla realtà?
Fuga, evasione, dicono.
Quello che so del viaggio è che sono costretta, una volta iniziato, ad aderire costantemente alla verità di quel momento, a diventare un tutt’uno col contingente, a immergermi fino al collo nel presente, a toccarlo, annusarlo, divorarlo dal mattino alla sera.
E mai, nella mia vita, ho pensato tanto alla morte come quando ho iniziato a viaggiare sola, lontano da casa.
Alla mia morte. Che ha smesso di appartenere a una dimensione altra, indicibile, inaccessibile, della quale, in fondo, non mi dovevo preoccupare: non è affar tuo, lascia perdere, Patti.
Finché non la si pronuncia, si ha l’illusione che non esista. Che pena.
Da quando l’ho chiamata per nome, non ho più alibi. In funzione del suo esistere, il mio esistere deve avere una funzione.
Il suo scopo è ricordarmi il mio.
Un uomo mi muore davanti agli occhi.
Non penso ad altro per diversi giorni. Assistere a una morte è un’esperienza di inaudita violenza, ma ha ragione mia sorella, con la quale parlo di quanto accaduto il giorno dopo. Quello che più di tutto mi ha turbato è stata la desacralizzazione di quel corpo, la posizione innaturale in cui era costretto. Mi ricordava una Pietà. Ma era un Cristo senza Madonna. Nessuno se lo teneva tra le braccia.
Questa è la realtà del viaggio, la realtà di un giorno che mi fa riflettere sulla realtà di tutti gli altri.
La verità è che verso la desacralizzazione del corpo, dei corpi, abbiamo dimostrato uno straordinario spirito di adattamento, una superba abilità.
Come alcuni animali che inseriti in nuovi habitat li avvertono, quasi nell’immediato, ospitali.
E adesso possiamo farlo. Possiamo guardarli i corpi martoriati, disgraziati, torturati, senza tomba, senza dignità, senza pace. Nondimeno, possiamo accettare che venga augurato lo stupro a una donna (a tante donne), ridefinendo, in poche parole, il senso ultimo di aberrazione, viltà e ripugnanza.
Possiamo farlo, sì: stare a guardare. Guardare mentre accade, senza smettere nemmeno per un attimo di mangiare la nostra pannocchia.