
Non sono riuscita a togliere la terra dalle unghie. Le mie braccia sono piene di graffi, le mie gambe di lividi. L’alluce del piede destro non è ancora guarito. La vacca che l’ha pestato, non c’è che dire, l’ha pestato come si deve. La mia schiena è spezzata in due; il collo, a sinistra, non lo riesco a girare. Ho dolori pressapoco ovunque.
Questo una parte del prezzo da pagare.
Al quale vanno aggiunte le frustrazioni dei primi giorni, il fatto di sentirsi inutili in un mondo così diverso, il dispiacere di commettere errori( è essenziale ogni tanto ricordarsi del poco che si sa e del tanto che si deve imparare. L’ego ne soffre, affari suoi), la difficoltà di una vita priva di agi, senza una doccia, senza acqua corrente e calda, senza gas, senza bagno ( solo un buco scavato nella terra), senza internet, con l’elettricità che funziona un giorno sì e uno no, a sentimento.


Ma questi 16 giorni spesi a lavorare dal mattino alla sera in un ranch mongolo sono stati una delle esperienze più intense, estreme, straordinarie, selvagge, e significative che la vita mi abbia riservato.
La fatica all’inizio insopportabile, tanto da farmi quasi addormentare sul piatto la sera, ha il grande merito di aver svuotato la mia testa da ogni pensiero, purificando ogni mia cellula, obbligandomi alla cura delle cose, delle attività giornaliere che mi venivano affidate. Il fare ha avuto la meglio su qualsiasi impalcatura mentale e auto-sabotaggio preventivo. Un fare antico, un produrre per sopravvivere, un lavoro che per questa famiglia mongola servirà a sopportare un inverno a meno 30 gradi. Io e la terra, l’acqua, gli animali, il latte, le erbacce, le cipolle e le zucchine.


E tirare le vacche per le corna, legarle al recinto, spingere i vitelli ad uno a uno e poi allontanarli dalle madri, per effettuare la mungitura.
Dormire in una yurta in mezzo al nulla, e alla 5 di mattina svegliare la mandria. Dedicare una giornata intera a produrre vodka mongola facendo bollire latte fermentato e poi con lo stesso latte produrre formaggio, strappare erbacce sotto un sole cocente, pulire stalle immerse nella polvere, accendere il fuoco due volte al giorno per cucinare, tagliare la legna, preparare le verdure e la carne, essere scaraventata per terra da due vacche che si prendono a cornate, sollevare pesi tutto il giorno, farsi ammaliare dalla corsa fiera dei cavalli selvaggi, essere sporchi di latte, merda e terra, dalla testa ai piedi, tutti i giorni.


“Io” in questa storia è la parte meno rilevante: tutto questo esiste e sarebbe esistito anche senza la mia presenza – il ranch è interamente gestito da Minjee, donna di forza, intelligenza e carisma. Luminosa e granitica, volto tondo di luna piena– ma grazie al cielo, ci sono finita dentro. Le mie mani all’inizio l’hanno solo sfiorata, ma per capirlo, per capirlo davvero, hanno dovuto immergersi, sporcarsi e ferirsi.
Avevo concordato quattordici giorni. All’inizio li contavo..ne mancano dodici mi dicevo, resisti. Ma quasi senza accorgermene tutto è mutato, al punto che, l’idea di andarmene ha cominciato a risultarmi dolorosa e sbagliata. Ho posticipato al massimo fermandomi altri due giorni, cosa che mi ha costretto a tornare a Ulan Bator con un treno notturno in terza classe freddo e tremendo, dal quale ho salutato Minjee con le lacrime agli occhi che mi bruciavano il volto e mi spezzavano il cuore; e dentro un senso di gratitudine profondissimo, per quel posto dove ho imparato a fare alcuni nodi e a scioglierne altri. Sarei restata di più, probabilmente fino allo scadere del visto, ma non potevo. Sono qui, a Ulan Bator, perché devo accogliere qualcuno. Un grande amico, un fratello, una delle persone a cui sono più legata su questa terra, già in volo dall’Italia da diverse ore.
Da domani in avanti, da Ulan Bator a Pechino, inizia una nuova avventura, e stavolta non sarò sola.