Ho iniziato a fare teatro nel 2002. Parecchi anni fa.
La presentazione di questo mondo, al quale mi approcciavo per la prima volta, era stata profondamente affascinante; tutta riassunta, nella mia memoria, in una frase:
“Mentre siamo qui, ragazzi, sospendiamo il giudizio”
wow
“Non solo verso gli altri, ma soprattutto verso noi stessi.”
WOW
Pensare che ci fosse un posto fisico, fatto di persone fisiche, nel quale poter zittire il mio giudice interiore – sempre così poco clemente nel mitigare le mie sconfitte e sempre così risoluto nel minimizzare le mie vittorie – mi lasciava di stucco.
“Giudice interiore, adesso taci.”
“Aspetta..prima volevo dirti che secondo me..”
“No. Taci”
“Ok.”
Da appassionata, non professionista, nel corso degli anni, la mia visione sulla pratica teatrale è cambiata. Prima ritenevo che la bravura di un attore fosse legata alla sua capacità di spogliarsi di tutto, per poter essere altro da sé; ma in seguito, ho capito che quando sei in scena ti si chiede qualcosa di ancora più complesso. Il teatro ti dice: tu sei una tavolozza nella quale ci sono tutti i colori. Tutti. Alcuni non li usi mai. Il giallo ocra ti fa schifo, ad esempio, l’idea di usarlo ti disgusta.
Bene. Ma forse è il caso che tu cominci, comunque, ad essere consapevole della sua presenza. Questo è lo sforzo. Perché il personaggio che devi essere ora è tutto giallo ocra. Ma non un giallo ocra inventato, bensì quello che già hai, in dote, sulla tua tavolozza; latente magari, nascosto, piccolissimo, ma comunque tuo. Tira fuori quel tuo che pensavi non fosse tuo.
Il teatro lo percepisco, per questo, come un atto di fatica pura.
O di purezza faticosa.
Ogni volta che recito, alla fine, mi sento malconcia e rimbambita; ma spudoratamente viva.
L’ultimo personaggio che ho portato in scena è stata Dorothy, in una rivisitazione dai toni foschi e lynchiani de “Il meraviglioso mago di Oz” di Frank Baum.
Mentre studiavo e lavoravo su questo personaggio mi è successo di rivivere, nella vita reale, molte delle vicissitudini che stavano accadendo alla mia Dorothy.
La prima.
Il mio personaggio veniva sradicato da tutto ciò che conosceva ed entrava in una sorta di incubo, dove tutto era ignoto e spaventoso.
Lo stesso è capitato a me. Il 2014 è stato un anno duro, un giga-meteorite caduto dal cielo, che ricordava un incubo ad occhi aperti. Niente di trascendentale, anzi tutto molto, prevedibilmente, umano. Cose della vita, che sono parte della vita, ma che mi hanno trovato impreparata.
Come Dorothy rispondevo in maniera infantile con un unico, nauseabondo, scontato ritornello: Perché proprio a me? Non è giusto. (Perché non a me? E cosa è giusto e cosa non lo è? mi sarei dovuta chiedere, e mi sono chiesta, col passare dei mesi)
A volte, durante le prove, mi sentivo riluttante a indossare i panni del mio personaggio, perché soprattutto nei momenti più ostici, è stato specchio di un qualcosa che vivevo davvero. Era come se una volta alla settimana fossi costretta, nell’atto scenico, a lottare; anche quando nella quotidianità, magari, non ne avevo voglia.
Eppure il viaggio (qualsiasi viaggio) si carica di un magnetismo irresistibile e chiama. Anzi, comanda.
Alza il culo. Cammina.
Muovi i tuoi piedi Dorothy, segui i mattoncini gialli.
Mica sei sola. l’Omino di latta, lo Spaventapasseri e il Leone t’accompagnano.
Non li voglio! Chi sono quei mostri sgangherati lì? Tutti arruffati, claudicanti, malmessi, bruttischifi…
Sono il tuo cuore, il tuo cervello, il tuo coraggio.
Ecco, andiamo bene.
Nello stesso periodo, anche il mio cuore, il mio cervello e il mio coraggio erano arruffati, claudicanti, malmessi, bruttischifi.
Ma c’era di più. Avevo in corpo tutti i postumi dello spavento.
Un po’ come capita da bambini. Uno si nasconde nel buio, dietro la porta e lì, acquattato, ti aspetta.
Tu passi sovrappensiero, ragioni sulle figurine che ti mancano per finire il tuo album, celo-manca celo-manca celo-manca e BUUUUUUUUUUUUUUUUU
Un tonfo allo stomaco, la faccia si spalanca, il cuore rotola sotto i piedi, le braccia e le gambe si cimentano in movimenti strambi, disarticolati, innaturali e inconsulti. Un burattino mosso da un burattinaio inesperto o ubriaco marcio.
SEI UN CRETINO! POTEVO RESTARCI SECCA! SCEMO!
Te ne vai raccogliendo il cuore, sistemando la faccia, raccattando gambe e braccia. Tornate a casa, dai. State buonine adesso.
Dopo uno spavento così, per un po’ devi stare fermo.
Ma io ero immobile da più di un po’. E anche Dorothy lo era. Persi i compagni di viaggio, persa la strada, persi i mattoncini gialli.
l’immobilismo, secondo me, non ha aggettivi.
Non è né grande, né piccolo, né potente, né massiccio, né snervante, né torrido, né glaciale.
La sua qualifica è tutta contenuta nella sua condizione. Stare immobili. Immobili. Stare.
“Oz, dov’è che devo andare? Cos’è che devo fare?” chiede Dorothy al grande mago.
“Affida all’universo i tuoi desideri” risponde a me Antonella, un’amica illuminata
“Non so cosa chiedere” le dico
“Chiedi di sapere cosa chiedere”
D’accordo.
Mentre io chiedo, Dorothy ammazza la strega. “Sei stata brava bambina” le dicono i suoi amici, e se lo dice pure lei, e glielo dico pure io.
Io e il mio personaggio continuiamo a muoverci all’unisono. Ci impariamo a vicenda. Le cose, nel frattempo, rientrano. Passano i mesi, il giga-meteorite sta diventando una pietra di cui vedo le dimensioni, di cui riconosco il peso specifico. So di poterla spostare. Il peggio è passato. Faccio un sospiro di sollievo, che è affamato e tremendo come quello di un sub che è stato in apnea, senza bombole, per un tempo impossibile.
E mentre Dorothy continua a desiderare il ritorno a casa, io inizio a desiderare la mia partenza.
“Patri ti ho sognata!”
E’ Federica. Mi chiama da Marsala. Ci siamo conosciute sul cammino di Santiago, nel 2013 e abbiamo percorso insieme un lungo tratto. Chilometri di giorni. Ci vogliamo un gran bene. Un mese lì equivale a una vita qui.
“..Ridevi! Quanto ridevi! E avevi lo zaino. Uno zaino grande. Eri in viaggio”
Che bel sogno Fede. Chissà cosa sognava Dorothy, addormentata nel campo di papaveri. Forse quello che sogna dall’inizio della sua avventura: casa.
E alla fine a casa ci torna.
Mentre io, alla fine, da casa, parto. Ma mi sembra di essere partita già da tanto. Quando ho cominciato a desiderarlo, quando l’ho immaginato così forte da farmi venire il mal di testa.
Tuttavia temo, ancora, tutt’oggi, di non farcela. Di non portare a termine questo sogno, ormai carico di mille aspettative.
Ma poi quali aspettative?
Ieri sul treno, ho conosciuto J.
E’ un regista e si parlava del momento in cui ti giochi tutto. Le poche settimane in cui si finalizza un lavoro, la cui scrittura e la cui produzione sono durate mesi.
“Il più grande fallimento è portarsi a casa quello che ci aspettavamo. Se il film è esattamente come ce lo siamo immaginati, abbiamo perso un’opportunità”
Farsi stupire dall’avventura. Dalle cose che vanno storto, dai mattoncini gialli che all’improvviso spariscono, dall’imprevisto, dai giga-meteoriti, dalla forza che hai, dalla forza che non hai.
E sospendere il giudizio, per la miseria!
Note
Foto di Anna Campanini. Grazie Anna.
canzone consigliata: “Shadows” delle Au Revoir Simone