L’aereo non è grandissimo. Di quelli che si capisce subito quanto sei stato disposto a spendere. Non molto, evidentemente. Fa niente, non mi interessano i film, la copertina e il cuscino, il tè caldo o il vino a temperatura ambiente, il pranzo, la cena e le noccioline. Voglio solo tornare a casa.
Presto i denti delle hostess, che ora si prodigano in amorevoli sorrisi dolcioni, inizieranno a battere per il freddo. Che il freddo demonio degli aerei è cosa nota ai più. Se c’è da passare un oceano poi, cosa ci dobbiamo raccontare?
15 ore mi separano da casa mia.
15 ore: Italia, Parma, San Secondo. Scalo a Monaco, che sempre mi piace far scalo a Monaco.
Sono vicino al finestrino, avevo chiesto corridoio.
Avevo chiesto corridoio per potermi allungare in quei rari momenti in cui le hostess non sgambettano avanti e indietro; avevo chiesto il corridoio, perché se voglio andare in bagno ci vado punto, senza dover chiedere permesso e scomodare tutti, con le cosce e il sedere che passano a un cm dal naso di sconosciuti, barcamenandosi le cosce poverette e il sedere poveretto, in quei 10 cm di spazio concesso dagli architetti degli aerei, che di bontà ne hanno poca, e comunque vivono in un mondo di magri, gli architetti degli aerei, si vede.
Cosa mi diranno i miei genitori? Quale sarà la prima, la primissima, parola? Ciao, forse. O forse niente parole. Anzi, ne sono sicura: niente parole. E mia sorella? e mio fratello?
Cosa mi diranno i miei amici? A me sembra di essere via da 20 anni…e tra 15 ore ci sono. Sono lì.
Mi voglio abbarbicare sui miei amici come se io fossi un koala e loro fossero il mio eucalipto. No…mica abbracciare. Mi voglio proprio abbarbicare. Voglio vivere addosso ai miei amici per qualche ora. Voglio i loro corpi che proteggono il mio. Sono così stanca.
E poi voglio tornare in tempo per festeggiare il mio compleanno. Tra pochi giorni, i miei 37 anni. Farò una festa grande, la festa che non ho fatto quando sono partita, che ero un cumulo compatto e compresso di stress, pronto ad incendiarsi alla prima scintilla o fuga di gas, o lacrima di petrolio.
Eccomi, alla fine, sull’aereo, che mi porterà a casa. Il giro del mondo non l’ho fatto, ma sto viaggiando da quasi 8 mesi in Sud America e adesso non ne posso più. Sono malata dall’Ecuador. E adesso non ne posso più. Volevo fare il giro, attraversare i due oceani, viaggiare a 360° da ovest a est, ma proprio, ripeto, non ne posso più.
Vado a casa, con questo aereo non grandissimo, con hostess battidenti, senza tè o caffè, perché voglio abbarbicarmi sui miei amici. Perché voglio la mia famiglia. La mia casa voglio.
E adesso ringhia, prende velocità, decolla.
Ciao Perù. Ciao.
E adesso è già alto e tutto diventa piccolo là sotto e adesso sono già tra le nuvole e adesso c’è un piccolo spiraglio di sole e adesso ci sono piccole goccioline sul mio finestrino e adesso la bambina davanti si è messa a strillare e adesso l’hostess la viene a consolare e adesso mi portano anche il tè -ma davvero? grazie! – e adesso ci sono 15 ore e adesso sto tornando a casa e adesso, proprio adesso con questo pensiero amico in testa…mi sveglio.
Non sono su un aereo. Non ci assomiglia proprio ad un aereo questo letto..
Il mio letto da un tempo indefinito a Huanchaco, piccolo paesino di pescatori sulla costa pacifica del Perù.
Piccolo paesino di pescatori schiaffeggiato e indurito da un vento mortale che fa impazzire i cani, i pesci, le piante e le persone.
Non posso in realtà parlare per i cani e i pesci e le piante, ma facendo io parte della categoria “persone” lo posso confermare: fa rincretinire sul serio questo vento.
Eppure sono capitata qui – come e perché non è dato sapere: il viaggio decide – e qui ci starò un tempo lunghissimo. Lo stesso tempo che avevo pensato di dedicare al Sud del Perù: Cuzco, Machu Picchu, la valle Sagrada, Arequipa, il lago Titicaca, le isole Bellestas, le linee di Nazca…quel tempo, tutto quel tempo che mi doveva servire per conoscere, mi servirà invece per guarire.
E spesso, anche se cerco di dimenticarlo e di far finta di niente, i luoghi che carichiamo di aspettative restano – per un contundente contrappasso – misteriosamente chiusi per noi. Da quanto aspettavo Cuzco? Eh, da quanto…Da Sempre. Ecco, c’è da aspettare ancora un po’, si direbbe.
Non Cuzco, quindi, ma Huanchaco. Col suo presente lento, piccolo, scomodo, scarno. Col suo presente ignorante che non sa nulla, che non ha certezze, conforto, empatia, pace. Col suo presente sabbiemobili, avvilente e spaventoso. E io, piccola che più piccola non si può, che me lo devo attraversare tutto. Dall’inizio alla fine.
Che giorno è?
Non lo so?
Da quanto sono qui?
Non lo so
Cosa faccio?
Cerco di guarire.
Mi sono ammalata in Messico e sono guarita, mi sono ammalata a Panama e sono guarita, e poi mi sono ammalata in Ecuador e non sono guarita. Me lo tiro dietro da allora, dalle guglie della cattedrale di Quito, una brutta bronchite che non vuole lasciarmi. Lasciami, bronchite, lasciami, non volermi così bene: io a te non ne voglio manco un po’, per esempio..
Gli antibiotici me li ha dati il dottore di Mancora, ma i miei polmoni fischiano ancora e sembra non vogliano migliorare.
C’è un centro medico a Huanchaco. Prova ad andare lì, mi dicono Paul e Dani che gestiscono Casa Amelia, l’ostello dove sono ospitata.
Cammino sul lungomare, ho il maglione e il k-way, ma un paio di pantaloncini corti con le cosce nude, perché le cosce non hanno paura del vento, le cosce non hanno paura di niente mai.
Al Centro di Salute, una visita costa 12 soles, circa 4 euro. Fanno una cartella col mio nome, hanno bisogno di sapere come si chiamano i miei genitori e l’indirizzo di casa mia in Italia. Mi sembra bizzarro ma forse ha un senso, forse hanno bisogno di inquadrarmi a modo loro.
Patrizia figlia di Paolo e Liliana ha la bronchite. Patrizia che ha vissuto tutta la vita in campagna, nella bassa, e che tanto anela un pezzo di parmigiano e un panino col prosciutto. Quella Patrizia lì, non altre.
Mi provano la pressione, mi pesano.
Ho perso circa 7/8 kg da quando sono partita. I viaggiatori su lungo raggio – tutti i viaggiatori – perdono peso. A volte ti dimentichi di mangiare, perché stai facendo troppe cose, o ti stai spostando su un autobus, o stai camminando in una foresta. E se devi scegliere come spendere i tuoi soldi, è indubbio che opterai un luogo in più da vedere e un ristorante in meno nel quale gozzovigliare ( e in generale di ristoranti ne vedrai davvero davvero davvero molto pochi. Ma altrettanto in generale è tanto bello anche gozzovigliare, non scherziamo.). E poi per lungo tempo sono stata inappetente. Mangiavo ma non per vero desiderio e quasi sempre due volte al giorno. La malattia, certo, la stanchezza, la spossatezza. E quando sei malata, non ti metti a cucinare, ma a volte, credici e meravigliati, qualcuno lo fa per te. E quel piatto che ti arriva dal nulla, avrà il sapore di gratitudine e certi sapori non si dimenticano più…
Mi visitano il medico e l’assistente.
Sì, c’è qualcosa che non va.
Già
Da quanto viaggi?
8 mesi circa
Sempre in Sud America?
Centro e Sud America
Come viaggi?
In autobus.
Senti Patrizia, non ti spaventare adesso
(Ti prego non iniziare così…ti prego non iniziate così, perché se inizi così non è che mi spavento…muoio proprio di paura)
Abbiamo avuto un caso di un viaggiatore come te (come me), che viaggiava sempre sugli autobus come te (come me) e…insomma (insomma…) aveva la tubercolosi (…).
Noi crediamo che sia il caso che tu vada a Trujillo per farti le lastre ai polmoni, per essere certi, sai, che non sia tubercolosi (…). Però non ti agitare, è solo per fugare qualsiasi dubbio (per fugare il dubbio qualsiasi..)
Tubercolosi.
Tu-ber-co-lo-si
T U B E R C O L O S I
Io non parlo più. A loro che mi guardano non rispondo neanche con un cenno, neanche con un sospiro. Io non parlo più. Sto scioperando. Sciopero contro l’ipotesi di me malata di tubercolosi. Non lo accetto. Non è un capriccio, è solo che non lo accetto. Ma non è stata debellata la tubercolosi? Ma non è diventata illegale? Non è vietata? Non è vietata per legge la tubercolosi?
Io non ci parlo con voi, anche se mi fissate, aspettando che scenda dal lettino e dica qualcosa di sensato. Agisci, ora, come tutte le volte che ti arriva un input esterno e rispondi con un’azione decodificata che possa essere di indubbia interpretazione per il contesto sociale nel quale sei inserita.
No. Nemmeno per sogno
E se invece adesso.
E se invece adesso mi mettessi a urlare, come la decodificate questa mia azione? E se adesso mi metto a folleggiare a camminare in tondo per la stanza, come i carcerati nell’ora d’aria? Se vi rubo lo stetoscopio e mi visito da sola, se sposto il lettino e cambio la disposizione del tavolo e delle sedie, se mi metto a cantare una brutta canzone italiana, ad esempio? Adesso, se mi metto a cantare una brutta – la più brutta che posso- canzone italiana forte a squarciagola… se inizio, io, Patrizia, figlia di Paolo e Liliana con tutta la mia infanzia di campagna, a comportarmi come una matta, cosa fate voi, medico e assistente?
Non è colpa vostra, lo so. E’ che ho paura. Per questo non riesco ad alzarmi da questo lettino. Per questo non parlo.
Non è colpa vostra. E’ che sono sola dall’altra parte del mondo. Fatico a metabolizzare le vostre parole…ce n’è una poi, che è d’un difficile capirla. Ma le parole con la T son tutte difficili sempre. Tortura, terrore, tiranno, tremore, terremoto, tormenta, tempesta, tentacoli, truculento. E lo so che c’è anche tenerezza – e toponomastica, per la quale ho un debole da sempre – ma farò finta di dimenticarmelo, giusto per mantenere alto il pathos di questo momento.
Ma alla fine cedo e mi alzo. Le azioni a seguire sono meccaniche, coperte di una glassa di angoscia, e il mio cuore batte e lo sento chiaramente nella vena che pulsa sul collo, e prendo il collettivo per Trujillo e vado in ospedale e pago per farmi fare le lastre e me le fanno e le aspettiamo e la glassa di angoscia si è solidificata tanto che sarà quasi impossibile, ora, romperla con un semplice cucchiaino.
Eccole le lastre. Pulsa la vena sul mio collo.
No…no…non è tubercolosi.
Ossantocielo, riprendo a respirare.
Riprendo a comprendere; le ginocchia mi tengono.
E` un’emozione, ma non ho la forza di ridere o di sorridere, solo ascolto. E riprendo colore in viso. E penso che dovrò curarmi certo, ma per lo meno, per lo meno non di una cosa dalle dimensioni sproporzionate. E penso che andrà meglio adesso. Lo penso, perché è giusto pensarlo, ma non so, non lo posso sapere in quel momento, che questa è solo lo punta di un iceberg la cui base di ghiaccio è molto più profonda. In quel momento non posso sapere che un’altra bomba sta per scoppiare.
La bestia nera -la possiamo chiamare bestia nera, o per essere più specifici fibromialgia – con la quale combatto da circa 10 anni, pensa bene di uscire dal letargo per esplodere con una violenza perfetta, irreprensibile, senza sbavature. Robe da togliersi il cappello e dire “oh, questo è davvero un lavoro fatto bene”.
Game over per me.
Tutto si ferma.
La fibromialgia mi ha lasciato in pace per tutti questi mesi. Ho continuato a prendere lo stesso quantitativo di medicine, in accordo col mio specialista, ma il mio corpo è cambiato e ha subito sbalzi di ogni tipo e ora il dosaggio è diventato un sovradosaggio. Quindi quello che finora mi faceva bene, improvvisamente mi fa male. Nervi e muscoli contratti, alias dolore cane.
E una spossatezza feroce e costante. Non ho la forza di fare due passi. Boccheggio al primo. Non ho la forza di alzarmi dal letto. Non ho la forza di farmi da mangiare.
E comprendo, e mi sfugge un sorriso amaro, che la parte più dura del mio viaggio è arrivata qui, a Huanchaco, Perù.
Perché questa malattia mi ha tolto la mobilità e l’immobilismo è la vera fregatura del nostro tempo.
E’ la più grande mostruosità. E’indecente. Immobilismo è, in breve, non avere scelta e in effetti, in questo preciso momento, non ce l’ho.
Se volessi ora prendere un aereo per tornare a casa, non potrei prenderlo. Non ho la forza di muovermi. Se volessi continuare il viaggio, ora, non potrei farlo. Non ho la forza di muovermi.
Posso solo stare a letto, posso solo aspettare.
È buffo.
Come la mente sappia lavorare a tuo sfavore quando devi aspettare.
È buffo quanto la mente sappia ingigantire ed esasperare le tue pene.
È buffo come sappia farti scivolare dentro a un pozzo di catrame nero nero nero.
È buffo.
È buffo, eppure non lo è.
Ho paura di morire.
Ho detto questa frase, così come l’ho scritta ora a tre persone, durante la mia lunga permanenza-degenza a Huanchaco.
Non l’avevo mai detta prima e non l’avevo mai neanche pensata. Alla morte ci penso molto di più da quando ho iniziato questo viaggio. Perché questo viaggio è spudorata vita ogni giorno. Indi per cui l’altra faccia della spudorata vita è la spudorata morte.
Ho esposto questa paura, la paura prima e anche l’ultima, la paura per antonomasia, a tre persone: Chiara, Boris, e Aldo.
Ho detto loro: Io ho paura di morire. Non voglio morire a Huanchaco, in Perù. Non voglio morire in un posto dove c’è il vento sempre…
Chiara mi ha detto: è ovvio che hai paura di morire! Sei lì da sola, stai da cani, non ti riesci manco ad alzare dal letto, è ovvio che hai paura. Io ho paura qui a Castiglione della Pescaia, per dire, e sto abbastanza bene.
Boris mi ha detto che non sarei morta a Huanchaco più che altro per la sua paura di prendere gli aerei. Mi ha detto: se mi vuoi bene non farmi questo, non farmi attraversare un oceano per vedere il tuo funerale, eh!
Aldo mi ha detto che non sarei morta. Ma di più…Aldo me l’ha promesso. Sono stata io a chiedergli: Me lo prometti? E lui mi ha risposto: Sì, te lo prometto. E’ bello quando qualcuno ti promette l’impromettibile. Sappiamo entrambi quanto sia infantile e idiota, ma aderiamo insieme al codice del“me ne fotto” e oggi nelle nostre mani c’è tutto il potere del mondo e lo decidiamo noi, miei cari, se morire oppure no. Olè! E conclude Aldo: “Tranquilla…Non credo sai, Patti, sia così facile liberarsi di te”
Ho detto a tre persone che amo che avevo paura di morire e queste tre persone hanno fatto la cosa più giusta, l’unica cosa che dovevano fare: mi hanno fatto ridere. Hanno capito che ero finita in un pozzo nero nero nero di catrame. Non hanno assecondato minimamente i miei deliri. Non hanno alimentato con ansia la mia ansia. Hanno invece allungato il braccio e mi hanno tirato su per i capelli.
Vieni fuori di lì. Vieni fuori adesso. E smettila con ‘sti pensieri, cretina.
La vita a Huanchaco.
Vivo in un ostello che in realtà è una casa. Dall’altra parte della strada c’è il mare. E la notte è sempre incazzato-ululante. Fa venire i brividi, sembra che pianga, ma con rabbia. Qui l’oceano Pacifico non lo riconosco. E forse è la prima volta che non lo sento mio.
Condivido la stanza con Allie, che viene dalla California. Lei dorme sul soppalco, io sono sotto e poi c’è un terzo letto che ospita persone di passaggio, per lo più 2 o 3 giorni e per lo più russatori indomabili.
Io e Allie siamo fisse. Lei fa un volontariato, io volontariamente cerco di guarire
La vita è di una semplicità ancestrale. Vado al mercato per comprare le verdure, ma i giorni in cui non posso, perché non riesco ad alzarmi me le compra Allie. Al mercato mi conoscono. Mi chiamano flaca, prima volta nella mia vita, giuro, che sono apostrofata come magra.
Appena sopra il mercato c’è la chiesa del paese. Per arrivarci bisogna destreggiarsi in circa 2 minuti – non più di due minuti – di salita. Ci ho provato qualche volte, ma non ce l’ho fatta.
E fa ridere, se penso ai vulcani che ho scalato o ai trekking durissimi all’interno dell’Amazzonia e non. Ore e ore di camminate e adesso non riesco a fare 120 secondi di passi. Da non crederci eppure c’è da crederci.
Il centro medico è vicino al mercato. Sono sempre lì. Approfitto di questo tempo per fare una serie di analisi del sangue e affini, per essere certa che i globuli non siano impazziti e che nessun parassita sia venuto a trovarmi.
Quando torno dal mercato sono distrutta. Passo molto tempo a letto, distesa, dormo o leggo.
Le mie letture quest’anno hanno fatto un giro tutto strano: Da Saramago a Garcìa Marquèz, da Milan Kundera a Erri de Luca, da Foster Wallace a Calvino. E adesso, è il momento di Harry Potter. Me li divoro tutti, i libri della saga, uno dopo l’altro, perché mai come ora ho bisogno di credere nella magia. E perché sono scritti bene eccheccavolo e io, devo dire la verità, non ci avrei dato una cicca a Harry Potter.
Nell’ostello lavora Katie. E’ colombiana. Una ragazza intelligente, anticonformista e sempre sorridente. E la buena vibra dei colombiani, è inutile, non si smentisce mai.
Passo molto tempo con Allie e Katie e cominciamo a condividere qualcosa di più dello spazio nel quale viviamo. Cominciamo a parlare e ad ascoltare. Io non sono quello che sono di solito, ma sembra non importare più di tanto. A volte Allie e Katie cucinano per me, nei giorni più bui. E quando sto meglio io cucino per loro.
Le giornate sembrano tutte uguali, solo alcune sfumature le rendono diverse. Il braccialetto che un artigiano mi ha regalato (“è perché tu guarisca in fretta”), il ristorante che io e Allie ci siamo concesse, non facendoci mancare un bicchiere di bianco fermo, la pizza dagli italiani, la passeggiare sul molo, il tramonto.
E nel mare ci sono solo le tavole dei surfisti e le barchette (caballitos, fatte con le canne intrecciate) dei pescatori, e la spiaggia accoglie i primi che tremando – l’acqua è gelida – rientrano dalla loro cavalcata di onde alla ricerca di una doccia calda, e i secondi con il loro bottino di pesci, che i pellicani vorrebbero rubare e gli abitanti del posto comprare e io fotografare.
Questo non è il posto dove mi sarei fermata in caso di lungo periodo di degenza. Però questo è il posto in cui mi sono fermata. Non l’ho scelto. E’ successo. Il viaggio me l’ha portato. E quindi ci resto. Punto.
Sono giorni strani da morire.
Sono monitorata costantemente dalla mia famiglia, dai miei amici, dal mio medico specialista col quale comunico via mail. E sento l’inconfondibile frustrazione dall’altra parte quando devo dire “nessun miglioramento” e sento l’inconfondibile sollievo quando comincio a dire “oggi un pochino meglio”
Un pochino meglio.
Oggi…un pochino meglio. Ho fatto le scale senza boccheggiare.
Ho meno dolore. Sono riuscita ad andare al mercato.
E poi cosa farai?
Non lo so
Perché non torni a casa un mese, solo un mese, poi riparti?
Perché se torno non riparto.
Vuoi restare?
Non lo so.
Quando ho deciso di partire per questo viaggio sapevo che sarebbe stato duro, ma non sapevo quanto. Sapevo che dovevo essere forte, ma non sapevo quanto.
Dicevo ai miei amici e a me stessa : tutto ma non la malattia. Non voglio ammalarmi in viaggio. Perché io la malattia non l’ho mai saputa gestire bene. La malattia non riesco – mai riuscita – a guardarla in faccia. Mi spaventa con la sua immobilità. Mi terrorizza.
E possiamo pensare a curiose coincidenze – io alle coincidenze ho smesso di crederci quando avevo più o meno 7 anni – ma questo mio viaggio ha deciso di offrirmi proprio quello che più mi spaventava. Questo viaggio non ha avuto pietà, o forse ne ha avuta molta.
Non vivere con questa paura, mi ha detto. Che la paura ti sbrana. Non farti sbranare.
Sapevo, lo sapevo prima di partire, che dovevo essere forte. Ma non sapevo quanto. Ora lo so, penso, mentre compro al mercato la yuka e la papaya, e poi mi faccio convincere per broccoli e carote. La chiesa è a pochi metri. La guardo dal basso per l’ennesima volta. E’ bianca ma non so come sia dentro. Continuo a fissarla e inizio a camminare. Sono 2 minuti. Ce la puoi fare, mi dico. E muovo i passi con prudenza, quasi non ci credo, il respiro è debole, ma le gambe mi assecondano. Sono solo due minuti, mi ripeto. Ce la puoi fare.
E ci sono fiori lungo il percorso e ci sono piante. E si vede tutta Huanchaco da lassù, lo so perché ora ci sono lassù. E la porta della chiesa è davanti a me. L’ho fatto. Ce l’ho fatta.
L’ho fatto.
Ce l’ho fatta.
E rivaluto in un attimo il senso profondo della parola impresa. Oggi so, e devo arricciare le labbra per non piangere, che questa brevissima salita di 120 secondi è forse una delle più grandi imprese della mia vita.
La chiesa ha lo stesso odore degli armadi delle nonne. E questa sensazione mi trafigge, mi prende alla sprovvista, mi concede malinconia e ricordi, mi fa tremare ma poi mi avvolge come una coperta di lana. Mi siedo su una panca. E sto lì, credo, per un tempo lunghissimo. E quando esco è già sera.
Il giorno del mio 37esimo compleanno Allie e Kati si alzano presto e al mio risveglio la tavola è imbandita di ogni ben di dio. Mi manca il fiato ma per la prima volta è bello che mi manchi.
E’ un giorno divino. Ricevo chiamate e messaggi. Chiara, Terri e Manu mi chiamano con Skype. Siamo in 4 parti del mondo diverse. Ci scriviamo costantemente, ma le loro voci non le sento da tanto. Le loro voci sono la pura bellezza.
E’ un giorno felice e la sera mi viene regalata una torta al cioccolato col mio nome sopra e brindiamo con una bottiglia di vino californiano e ridiamo come matti e le candeline ci inondano di luce e io ho voglia di ballare e saltare e cantare e abbracciare e ringraziare, ed esprimere desideri, e di credere nei desideri, ho voglia, di ricordare con tutta l’onestà che posso che ho la responsabilità di ciò che desidero, ho la responsabilità di averlo desiderato, e più di tutto – più di tutto – ho la responsabilità di renderlo reale.
Me lo devo.
E il regalo più importante sono 13 parole di una mail che arriva qualche giorno dopo, senza la quale, anche con tutte le consapevolezze dal mondo, non sarei uscita dal mio limbo, ma grazie alla quale, insieme a tutte le consapevolezze del mondo, ci esco
“tutte le crisi sono epoche ponte, sei attesa in un punto ben preciso”
Sono attesa in un punto ben preciso, mi ripeto. E non è più tempo, forse, di farmi aspettare.
La stessa notte compro un biglietto per lasciare Huanchaco.
Katie si ammala per prima. E poi è la volta di Tony, una ragazza tedesca. E’ un virus…ci mancava…Vomito e diarrea e le poverette sono ko. Io sto bene e cucino per loro, compro le medicine, cerco di aiutarle come posso. Non per qualche codice etico che mi impongo, ma semplicemente perché così funziona il viaggio e la vita. Quando sei stata sola e ammalata e qualcuno si è preso cura di te, non potrai mai più – mai mai più – esimerti dal fare lo stesso. E non perché è doveroso, giusto o corretto. Lo fai semplicemente perché è l’unica cosa possibile. L’unica, in assoluto, che puoi fare. Non sarai più capace di chiudere le porte, se per te sono state aperte anche solo una volta e questa è una verità, come si dice, incontestabile.
Il copione poi sembra scritto quasi a pennello. Il giorno della mia partenza per Lima mi ammalo anch’io e non posso prendere l’autobus la mattina, perché non c’è modo di lasciare il bagno. E’ tragicomico. E’ surreale. E’ il colmo. A Lima ci devo arrivare il giorno stesso, perché il giorno dopo ho un’aereo per Santiago del Cile e poi un altro per Buenos Aires e infine, un altro, un ultimo aereo…
Come farò ad affrontare tutto questo? Come faccio, che non posso allontanarmi dal bagno? E’ impossibile.
E’ impossibile.
Rendilo possibile. Fallo. Punto. Respira. Cerca una strabenedetta alternativa. Respira. L’unica soluzione è prendere un aereo la sera stessa per Lima. Ma non c’è modo di andarmene da qui facilmente, e lo so. Decidere di muoversi dopo tanto immobilismo costa una fatica mostro. Non riesco a comprare il biglietto su internet e quindi decido di farlo direttamente dall’aeroporto. Ma le mie carte non funzionano, il bancomat è momentaneamente fuori servizio, i miei dollari non li accettano perché sono stropicciati. Se perdo questo volo, perdo anche tutti gli altri. Ma lo sto per perdere, lo vedo già scivolarmi dalle mani e da sotto il sedere. Ma all’ultimo, proprio all’ultimo, la mia carta riprende a funzionare. E dopo poco sono a Lima, nello stesso albergo di Tony che la mattina stessa ha preso l’autobus che io ho perso. E il giorno dopo sono a Santiago del Cile e passo la notte in aeroporto coperta dai medicinali e dal mio saccoapelo. E il giorno dopo sono a Buenos Aires, ma non in un ostello, bensì in una casa. Nella casa di Laura, un argentina che qualche mese prima ho conosciuto a Panama nelle isole di San Blas. E il divano dove dormirò per tre giorni, col camino acceso la sera, l’accoglienza sua e di Alan, la cucina e il terrazzo, i miei panni lavati, la chitarra e le canzoni, la cena italiana che cucino io, i tramezzini e il tiramisù che portano loro, la lettera che risale al tempo della seconda guerra mondiale di alcuni parenti italiani di Laura che leggo e di cui loro ignorano il significato, e che a me spezza il cuore in cento pezzi, perché parla di persone perse, falcidiate dalla guerra e di famiglie spaccate per sempre, e il vino rosso, le parole, il parlare di tutto, il parlare di niente, il sentirsi vicini, il sentirsi amati: questo è il mio rinascere a Buenos Aires, il mio guarire, alla fine, a Buenos Aires. E ora dopo tutto quello che ho passato lo so: guarire è conoscere. Guarire è conoscersi.
Io non ce l’ho la foto a Machu Picchu. Ma ho la foto dei miei polmoni, l’inizio travagliatissimo di tutt’altro viaggio, che volente o nolente ho dovuto percorrere, e alla fine del quale c’ero io, meta di me stessa. Una donna forte, che quasi non riconosco. Ma sono proprio io, in carne ed ossa. E non mi farò più il torto di credere che non sia così.
E adesso, finalmente, sono pronta, per l’ultimo aereo.
Questo aereo è grande per davvero, che si capisce subito, mseria ladra, che ho dovuto spendere tanto. Ci sono coperta, cuscino e auricolari. Ci sono un sacco di film. C’è tutto. C’è il tè il caffè, il vino rosso, il pollo con patate. C’è il pane e il dessert. Mi hanno messo in un posto centrale, ma mica mi rassegno e spalanco gli occhi più dolci che ho per avere il posto corridoio e me lo danno.
E poi ringhia, prende velocità, decolla. Ciao Perù. Ciao.
E poi è già alto e tutto diventa piccolo là sotto, credo, ma non ne sono sicura perché è notte e poi sono già tra le nuvole e poi c’è un piccolo spiraglio di luna e poi ci sono piccole goccioline sul mio finestrino e poi la bambina davanti si è messa a strillare e poi l’hostess la viene a consolare e poi mi portano il tè – ma davvero? grazie! – e poi ci sono 13 ore di viaggio e altrettanto di fuso e poi sarò arrivata e poi con questo pensiero in testa…mi sveglio.
E ci sono.
Io insieme ai miei desideri di candeline. Io responsabile di renderli reali. Io che volevo fare il giro del mondo da ovest a est e che è esattamente quello che farò.
Io che sono arrivata. Che ho saputo lasciare, dopo tanti mesi, un continente che ho amato alla follia, che mi ha dato tutto, che mi ha piegato fino quasi a spezzarmi, che mi ha ammaliato e ammalato, che mi ha plasmato, che mi ha reso dura, che mi ha reso fragile. Che mi ha cambiata, che mi ha voluta, che mi ha stretta, che mi ha tenuta e che alla fine, ma non senza lottare, mi ha lasciato andar via.
Io sono arrivata.
Nel posto in cui sono attesa. E non si chiama casa…non ancora…
Ciao Nuova Zelanda.
Eccomi.
Grazie Felice per le tue 13 parole.
Canzone consigliata per la lettura: Non c’è una canzone consigliata per la lettura. Io in quei giorni avevo il suono dell’oceano furibondo e quando è furibondo non c’è niente che lo possa sovrastare.