“Cara Patrizia, ti chiediamo solo di riportare indietro la Patti sana e salva. Auguroni, Battista e Margaret”
Questo biglietto me lo giro tra le dita da un po’.
L’ho ricevuto mercoledì in un bar di Solarolo, in provincia di Cremona, mentre bevevo succo d’arancia e mangiavo riso con pollo al curry, alle 11 di mattina; un aperitivo, tutto sommato, strano.
Battista e Margaret sono amici storici dei miei genitori. Vivono tra l’Irlanda e l’Italia. Mi conoscono da quando ero una bambina. Li adoro. La loro storia d’amore, dai toni esotici, mi ha sempre terribilmente appassionata.
Perché Margaret e Battista sono un “incastro inaspettato”. Sono due lego, Margaret e Battista, diversissimi tra loro, con una conformazione che racconta di vita e attitudini e caratteri e modo di sentire opposto; eppure, proprio per questo (grazie a questo), si completano in una maniera che, tutte le volte, mi lascia secca.
Credo di aver appreso da loro – quando ero poco più di 50 cm di essere umano e grande mangiatrice di bomboloni e affini – che “possibilità” e “diversità” altro non sono che una radiosa rima baciata.
Riporta indietro la Patti sana e salva
Salva e sana riportala indietro, please.
“Stai atténta…”mi dice Margaret con quel suo bell’accento irlandese, con la “e” che fa dei giri tutti suoi nel palato e l’ultima “a” che è di una dolcezza tale, che se la “t” che la precede non se ne innamora, io vi assicuro che è davvero una “t” senza cuore.
Certo sì. Lo farò Margaret.
Che belli i biglietti, scritti di pugno, con una penna bic, su un pezzo di carta che profuma di carta.
I biglietti che portano il tuo nome e un pensiero associato al tuo nome.
Il tuo nome che contiene la tua persona tutta.
Il tuo nome che contiene la tua essenza tutta.
Non solo il tuo nome, ma le tue ossa, le tue mani, il fegato e la milza, il cuore, la testa e gli occhi, la tua voglia di ridere, il tuo modo di parlare e gesticolare e strizzare l’occhio e respirire, e l’amore per il curry.
Congedarsi è una fatica. E’ un mestiere, quasi.
Per una come me, una sentimentale, un’emotiva…congedarsi fa un male.
Sono cambiata molto, negli anni.
Ricordo, ad esempio, che poco prima di partire per l’Erasmus nel 2002, ero un’anima in pena ipercinetica.
Uscivo sempre e continuavo a salutare tutti: ciao, addio, è stato bello, ci vedremo tra molto tempo, lo so lo so è dura, non dimenticatemi; e poi uscivo di nuovo ed era la solita solfa: ciao, addio, è stato bello, ci vedremo tra molto tempo, lo so lo so è dura, non dimenticatemi; fino all’ultimo giorno che è ricordato dalle mie amiche come una sorta di esperimento antropologico, o più realisticamente una pièce teatrale, la cui buona riuscita lascia non pochi dubbi negli spettatori.
Alle 8 di mattina, avevo convocato tutti gli amici a casa per “l’ultimo (inesorabile) saluto”. L’ultimo (inesorabile) saluto. Rendiamoci conto.
Una tragedia. Piangevano tutti. Almeno, io piangevo di brutto, i miei genitori, mia nonna, le mie amiche…E tutto un abbracciarsi, e adesso? come si fa? Cosa faremo tutti? Questa lontananza ci devasterà e non ne usciremo vivi, molto probabilmente.
(Voglio dire, io me ne andavo in Spagna, a Tarragona, al mare. E una volta lì, una volta infossati i piedi nella spiaggia, posso assicurare che di lacrime non ne ho versate più nemmeno una. Per dire quanto stavo male)
Eppure, sono partita con un turbamento interiore e un immaginario esteriore fatto di occhi rossi e stuzzichini (perché, a casa dei miei genitori, cascasse il mondo, appena varchi la soglia ci sono cose da mangiare che ti aspettano, anche alle 8 di mattina, anche in piena pièce teatrale).
Adesso.
Che strano quello che sta succedendo adesso.
Sto passando le sere a casa. Arrivo sfinita a fine giornata e ho bisogno di metabolizzare, di fare ordine, di incasellare. Procedo a tentoni nel gestire il subbuglio che mi sta sfibrando.
Sono per lo più a San Secondo, nella bassa, bene abbarbicata alla mia casa e alle mie origini. Fagocitata dal plaid, indolenzita dai troppi pensieri, esausta dalle troppe preoccupazioni.
Ho bisogno di silenzio, di pace, di quiete.
Di silenzio e pace e quiete. Per favore.
Non ho quasi più niente da dire. Potrei guardare le persone negli occhi, potrei parlare con gli occhi, ma con le labbra no.
Ho bisogno di scomparire, di farmi piccola (mi sento piccola, piccolissima) come un seme che deve stare sottoterra, altrimenti di germogliare non se ne parla. Altrimenti cosa pretendi da un seme esposto a tutto? Va lasciato nascosto, sigillato nel cuore del campo.
E’ lì che devo stare ora, tra le talpe e le radici. A ricordarmi chi sono, prima di sperimentare chi sarò.
Non reggo il distacco da coloro che amo e quindi temporeggio con i saluti. E quando è il momento, fingo che non sia il momento.
Allora io e te, tu e io ci vediamo anche la prossima settimana, a cena a casa mia, al cinema (che è sempre la tv di casa mia), a saltellare per le vie della città, a parlare di tutto quello che faremo, della vita e dell’amore e di quel ragazzo che non mi ha baciato e di quell’altro che non ho baciato io e del Duomo e del Battistero di Parma, dei cappelletti e delle gambe che pedalano e delle idee che si rinnovano e delle multe che ho preso e della rabbia che ho provato e del teatro e degli spettacoli che dobbiamo andare a vedere e dei cin cin che dobbiamo brindare e dei vestiti che vanno lasciati negli armadi e di quelle che vanno messi nel sacco della Caritas e del vino da Canistracci, e di Borgo Giacomo che mi piace sempre tanto con i suoi abiti vintage e il brocantage.
Congedarsi è reale, tanto quanto partire.
Congedarsi è già partire. E’ un’azione piena di azione.
E’ un’azione che è quasi una sfida.
Tipo alle olimpiadi. E’ la corsa prima del salto in lungo.
Quella corsa lì, che tende il muscolo e i nervi e il sangue pompa e il respiro si affanna e i piedi azzannano la terra che diventa polvere e la polvere scompare come te, quando parti.
Puf! E’ sparita Signori e Signore, non c’è trucco e non c’è inganno!
Prima c’era, l’avete vista tutti, e adesso non c’è più!!
Ho ricevuto biglietti e foto. Cose piccole, che con la loro preziosa quasi bidimensionalità, stanno ovunque e non occupano spazio nella preziosa e già compromessa tridimensionalità del mio zaino.
Me li guardo anche adesso, ancora prima di essere dall’altra parte del mondo.
Sono le persone con cui già mi sono congedata.
Ci siamo abbracciati forte, sussurrando due o tre cose nell’orecchio, piano, con cautela. Una formula magica, che protegge chi parte e chi resta. Una formula antica, arcaica, di un linguaggio universale. Ho sentito il bacio lunghissimo sulla mia guancia e altrettanto lunghissimo l’ho restituito; le mani che hanno accarezzato i miei capelli corti e la mia testa che ha una forma strana tutta sua, e le mie spalle ho sentito, che come un ombrello hanno sostenuto questa tempesta di emozioni, ma che impermeabili non possono essere e mai sono state.
Non bisogna aver paura di tremare.
E io ho Tremato.
Scoppio di malinconia. Scoppio di vita.
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Mentre lavoravo a questo post, Petra ha trascritto alcune righe di questo libro: “Il vento contapassi” di Lorenzo Zumbo . Lo riporto qui. (Sarebbe bello essere pure io un’eroina dell’800…mi accontenterò di essere una donnina del 2016)
“C’è spesso nei romanzi dell’Ottocento un eroe che si congeda. Sceglie soprattutto i propri silenzi per formulare un ultimo saluto. Che deve essere definitivo. È il punto del romanzo in cui le parole del narratore scavano un buco. Bisogna arrestarsi nella lettura. Bisogna sentire, chiudendo il libro, quanto esteso sia lo strappo, il buio che d’ora innanzi abiterà in ogni pagina.
Oggi ho deciso di congedarmi. Di praticare quest’arte difficile che cuce insieme impazienza e nervosismo. Comincio dalle cose in cui mi imbatto appena sveglio: un paio di ciabatte, una camicia, una lametta da barba. Ogni cosa richiede un’attenzione speciale. Si segue nel congedarsi una liturgia, un rito. Lo sguardo, per esempio, deve misurare quanto più mondo è possibile. Deve accogliere la memoria lunga di ogni luogo.
Me lo fa capire bene mia zia Maria che mi accompagna per le strade del paese. Mi dice che nel separarsi i nomi pesano di più perché si riempiono di terra. Per questo ci si stanca. Mi stringe il braccio davanti a ogni porta. È mattino presto e in giro non c’è nessuno. Allora noi ci congediamo dal liscio sapere delle nuvole, da questo mese, da un mare quasi bianco. E camminiamo senza fermarci. Mia zia dice che un congedo è un amore che ci è dovuto come d’estate il volo di certi uccelli impazziti. Ma non ce ne accorgiamo subito.
I nostri passi si lasciano dietro una polvere azzurra. Se ci voltiamo, si vedono cicogne rubare pezzi di cielo ad altissimi minareti.”
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Canzone consigliata per la lettura: “So long Marianne” di Leonard Cohen