
Per descrivere Krasnoyarsk bisogna pensare a un matrimonio tra casermoni di cemento. I due sposi hanno le idee chiare sul dress code al quale tutto gli invitati dovranno attenersi durante la cerimonia. Tutti grigi. Grigio medio…nè chiaro, nè scuro: medio. Il più comune dei grigi, per intenderci. Bene, ora bisogna immaginare che all’interno di questo matrimonio, come ad ogni matrimonio, siano presenti una serie di invitati che bellamente se ne fottono del dress code, ma non per spirito anarchico, piuttosto per indolenza, o per necessità di economizzare: scusa ma ho quel vestito rosso nell’armadio che va benissimo, eddai; Io me lo metto, tanto non se accorge nessuno.
E così nella grigia Krasnoyarsk appaiono, di tanto in tanto, i colori. E si vede che non sono proprio a loro agio, e che si domandano ora, con un pudore che a casa certamente non avevano, se stare a quella festa conciati in quella maniera sia opportuno (se lo chiedono ma lo sanno che no, non lo è).
Cosa volete farci oramai: l’indolenza, la necessità di economizzare…
Insomma è andata così.

In Siberia si muore di caldo. In luglio, per lo meno. È da un mese che visito una città dopo l’altra senza sosta. Ho bisogno di natura. Di camminare tra gli alberi. Di un luogo in cui il mio andare non sia definito dal verde-rosso di un semaforo. Di un corso d’acqua che non sia una fontana. Dell’odore del bosco dopo la pioggia.

Il parco Stolby vuole darmi tutte queste cose. E mi evita persino i tafani. Dopo essere arrivata alla roccia dell’Elefante, e dopo essermi sdraiata tra gli alberi della foresta siberiana attraversata da un vento lieve, ripercorro il tragitto in discesa, guardando gli scoiattoli, per nulla intimoriti dalla presenza umana , che mi osservano quasi a dire: niente per noi?

Nell’ostello di Irkutsk (la Parigi della Siberia, la chiamano. Splendide le case in legno con le decorazioni a intaglio, ognuna con un suo specifico significato) una ragazza tedesca mi mostra il suo zaino. È enorme. So perfettamente cosa significhi uno zaino di quelle dimensioni sulle spalle e sulle ginocchia e quanto sappia spezzare il respiro, pressare sulle articolazioni, gravare sulla struttura corporea in toto, provocando addirittura un senso di nausea. Starà 3 mesi in Mongolia, mi dice. Mi serviva la tenda e il fornellino, e il materassino e un telo per la pioggia, e tutte quelle cose per essere libera, il più possibile. E ora il mio zaino è un macigno.

Certo, le rispondo sorridendo, la libertà sa essere pesante.
Forse mi sbaglio, ma di libertà semplici io non ne ho mai incontrate.
Libertà a cuor leggero. Libertà spensierate.
No, la libertà è una fatica. È faticoso uscire dalla convenzione sociale, lavorativa, culturale, perché c’è, in tali convenzioni, qualcosa di confortante, rassicurante e accudente. Sapere dove inizia e dove finisce qualcosa. Avere l’impressione di poter esercitare un controllo sugli eventi, sul tempo.
La libertà implica l’accettazione categorica del rischio, della variabile, del fallimento, del non sapere nulla del dopo, e pochissimo del durante. È complicata.
Come solo possono esserlo la natura selvaggia e la solitudine.

L’isola di Olkhon sul lago Baikal è considerato uno dei poli sciamanici più energetici al mondo. Qui si mischia buddhismo, chiesa ortodossa, e una tradizione sciamanica che trova le sue radici nella Buriazia.
Si fanno offerte agli dei: monete, sigarette, zollette di zucchero, cibo.
La natura tutta è sacra. Le vacche pascolano libere, le strade non esistono. Solo percorsi di sabbia, appena praticabili, con dossi e buche. La scoperta del nord dell’isola è un’impresa bestiale, stremante. Sembra che la natura qui non abbia alcun desiderio di farsi penetrare, ma la sua bellezza è accecante, e nulla può o potrà fermare il turismo da una parte, il business che ne deriva dall’altra. Le rocce a picco sulle scogliere sono storie, credenze. Quelle sono le gambe di una donna, se le percorri a destra avrei un maschio, a sinistra una femmina, se vai al centro, avrai due gemelli, dice il nostro autista.

C’è qualcosa in quest’isola che mi lascia senza fiato. Passo moltissimo tempo osservando la roccia dello sciamano, alla quale si arriva a piedi dal paesino di Khuzhir. È magnetica, ma starle davanti mi svuota, togliendo vigore e vitalità. Mi rende esausta. È come se chiedesse, esigesse presenza. Tutto quello che puoi, ragazza mia, oppure niente.
La libertà: fatica e euforia.
La fatica non spegne l’euforia.
Tutto quello che puoi, libertà mia, oppure niente. E così, regolarmente, come in tutti i viaggi, mi ammalo. Non mi so fermare per tempo. Non riesco a dire no.
Per questo, alla fine della fiera, libera non sono.
Non ho la libertà del no. Che è bella quanta quella del sì. Anzi, a volte, lo è anche di più.
