Se io non brucio, se tu non bruci, se voi non bruciate, chi illuminerà questa oscurità?
Bella domanda.
Bella domanda davvero, mi ha fatto quasi inciampare.
Ma visto che invece sono rimasta in piedi, mi ci fermo proprio davanti alla bella domanda che qualcuno ha scritto su un muro, di fronte a una stradina, di fianco a un praticello, sotto a un cielo spinato, al di sopra di…me.
Ci penso su un bel po’ – fermadritta – al senso di ardere, ma in realtà ancora di più al concetto illuminante di illuminare.
Perché una cosa mi sembra più che ovvia da quando ho messo i miei piedi, uno e due, in Colombia: mille volte sono stata illuminata.
Il mezzo sempre lo stesso, come il fil rouge di un libro molto ben architettato, con i giusti ritmi e le giuste premesse, con i momenti di quiete (pochi) e le avventure (molte), gli imprevisti (troppi) e un lieto fine, alla fine.
E il libro in questione inizia con una tesi, che è la seguente: la prima forma d’amore è dare da mangiare. Così sopravviviamo alla vita quando siamo grossi più o meno come una papaya. Così la persona che ci ha messo al mondo opera affinché la papaya diventi melone e poi anguria e poi guànabana (da non crederci che esiste un frutto più grande dell’anguria,no?…ma tant’è).
Abbiamo sempre fame.
Tanta fame di qualunque tipo – molto reale, molto metaforica – e un bisogno incontenibile di essere saziati -molto reale, molto metaforico.
Io amo mangiare. Sono nata in campagna, nella bassa, in un paesino confinante ad altri paesini nel quale, fin da piccolissima, parole come parmigiano, prosciutto, salame mi sono entrata in testa rapide e leggere – come se fossero la base di una assai complicata piramide lessicale – insieme a mamma, papà, grazie, prego, bombolone, ciao, si, no, ho 3 anni, mi chiamo Patrizia.
Chi ti invita a casa sua, ti prepara una cena, stappa la bottiglia che hai portato – un rosso ben strutturato, facciamo – si siede vicino a te, allungandoti due antipasti decisamente ipercalorici, in attesa che finisca di rosolarsi nel forno il piatto forte (e ci scommetto un braccio, è ipercalorico pure quello) a mio parere, almeno un po’ di bene te lo deve volere.
Non ti metti in cucina se non vuoi bene.
Se non vuoi bene, non lo fai. E questo è tutto.
Lascio il Dipartimento di Antiochia che ho amato di un amore tenace e perseverante con un autobus che tanto mi ricorda quelli di Gardaland. In legno, colorato, allegro, scomodo e inconcepibilmente, inverosimilmente lento. Attraversiamo la cordigliera, dondolati qua e là da una strada tempestata di sassi e da una musichetta sbadata, il cui tema è sempre e comunque più o meno lo stesso: qualcuno soffre per qualcuna che non lo vuole più. E questo qualcuno mica si rassegna, voglio dire, e comunque non prima di essersi lamentato a dovere durante tutti i 4 minuti circa di canzone.
Ci fermiamo all’improvviso, lo capisco dal fatto che la mia testa smette di dondolarsi a destra e sinistra, e recupera l’originario equilibrio proprio sopra il mio collo (non ci speravo). Siamo di fronte a una casa nel cuore del monte. Dietro grossi pentoloni fumanti una Maga Magò andina muove altrettanto colossali mestoloni. Mi compro un tinto (caffè), alcune frittelle divine e il resto me lo dà aggiungendo un’altra frittella. “Non ho moneta”, mi dice con tranquillità alzando le spalle. E io la trovo una poesia, il resto in frittelle. Sto per uscire, quando un uomo dall’aspetto rude e gli occhi intensi mi chiede se voglio un pezzo della sua trucha, la trota che qui è piatto forte. In realtà non è che me lo chiede, prepara una sorta di panino, lo stesso che due secondi prima ha sapientemente elaborato per suo figlio – che mi lancia un gesto di approvazione con la testa, quasi a dire, mangia e poi dimmi se non ti cambia la giornata, bambina – e me lo porge con le sue manone di dita collose e compromesse, che di riposo ne devono vedere molto poco, ma ugualmente aggraziate, in questo gesto antico e potentissimo.
E io me la mangio, la sua trucha, ma non prima di allargare la mia mia faccia in un sorriso che fa il giro della testa.
Eccola la magia della Colombia, il fil rouge di questo libro. Lo so, lo riconosco, anche se ancora non me ne capacito.
E tutte le volte lo accolgo con l’altrettanta riconoscibile stretta allo stomaco, il rossore nelle guance e uno spalancarsi d’occhi che se non sto attenta prima o poi rotoleranno fuori dalla mia faccia. Qualcuno si prende cura di me nel primo modo con cui ci si prende cura delle persone. Non ho niente da offrire in cambio. Eppure accade. Sempre. Lo stesso. Sempre e lo stesso.
A Salento ci arrivo dopo tre autobus e piove il cielo e sento quella spiacevole sensazione che a volte mi pervade di fronte a questa noiosissima condizione climatica, ovvero credere che la pioggia non cesserà mai più-più-più e che quel grigio rimbambente ha vinto sopra ogni cosa. Ho un problema con la pioggia. E’ un amore molto condizionato e difficilmente le condizioni sono quelle giuste.
Ecco, non tornerà mai più il sole, mi dico. Ma lo so che è una balla. Lo dico più che altro, per creare il giusto sottofondo noir al mio umore, per il gusto perverso di lamentarmi e per essere smentita dal sole stesso, che giustamente, il giorno dopo mi viene a schiaffeggiare.
Oh! La smetti un po’ con ‘ste previsioni catastrofiche! Dacci un taglio, esci e riempiti gli occhi!
Salento è un paesino, con la stessa conformazione di tutti quelli visti finora, con una piazza incandescente di bancarelle di tutti i tipi, dove la parola d’ordine è patacones…ma ancora di più trucha… ma ancora di più, mangia.
Sono nell’Eje cafetero. Si produce caffè a più non posso e mi rendo conto, quasi con un sussulto, che io non so proprio un bel niente sul caffè. Prenoto un tour nel pomeriggio per far sì che quel niente diventi poco, o – se proprio vogliamo essere ottimisti – poco e qualcosa, il che mi sembrerebbe una gran vittoria. Per arrivare alle piantagioni devo scendere lungo un sentiero per circa un’ora. Mentre cammino mi viene da scrollare la testa e dire no, come si fa di fronte a qualcosa a cui non credi ancora. A questi colori qui, a questi fiori a forma di alveari e alle farfalle, che come guardie del corpo, mi scortano lungo tutto il sentiero e quindi, come minimo, ci parlo.
Quanto/cosa ho imparato finora. Quanto/cosa posso ancora imparare. Quanto ancora posso sfidare la mia mente a immagazzinare? Forse, mi dico, dovrò comprare una memoria esterna, se lo spazio dovesse finire. Ma per il momento, sembra che ce ne sia ancora un po’.
Ce n’è ancora un po’, mentre la ragazza ci mostra i semini di caffè che vanno messi prima nella sabbia, le piantine che vanno messe poi nella terra e infine le bacche che vanno messe nei cestini. “Al lavoro, Signori! Raccogliete le bacche, ma solo quelle rosse per favore, se sono verdi, lasciatele dove sono”. E io mi aggiro tra le piantine e le foglie immense cadute da alberi altrettanto immensi che ci potrei fare una maglietta. E quando torno in mezzo al gruppo con le mie bacche rosse, un signore arrivato in ritardo, con quella che suppongo essere la sua famiglia, sta controllando tutti i cestini. Si avvicina al mio, mi guarda molto molto seriamente e sentenzia: il tuo è il migliore.
Mi viene da ridere. Non so neanche perché, forse è da un po’ che non penso al giudizio in questi termini, o forse perché ci tiriamo dietro questo retaggio da quando siamo bambini: che ci piace far bene una cosa e soprattutto che qualcuno lo riconosca. Si conclude la giornata bevendo caffè, poi tutti più o meno se ne vanno. Mi siedo su una panchina nel giardino dell’azienda. E’ rivolta su una vallata, e me la assaporo con calma, inspirando 100 pensieri e espirandone zero. Sento che ci sono due cose maestose di fronte a me: la prima è la vallata stessa; la seconda, la mia assoluta non voglia di ripercorrere tutto il sentiero in salita. Interrompe il mio brusio interiore la voce di un ragazzo.
Io e la mia famiglia abbiamo la macchina, se le fa piacere andiamo verso il paese.
Lo guardo strabiliata – mi hai letto dentro?- e salgo dopo un numero copioso e sincero di grazie. Dietro con me una ragazza, una signora e davanti alla guida… il giudice che aveva assegnato un 10 alla mia raccolta e – lo scoprirò più avanti.- niente meno che l’incontro più pregnante di un mese di Colombia.
E’ un’architetto, avrà circa 60 anni. Ha partecipato alla costruzione e al restauro di molte case a Salento. Mi dice che il mio spagnolo gli ricorda l’accento cileno. L’hai imparato in Cile? No, in Spagna.
Da quando salgo sulla macchina mi rendo conto che non sta dando un passaggio solo al mio corpo, ma alla mia curiosità, al mio desiderio bulimico di conoscere che cresce,cresce, cresce direttamente proporzionale alle sue parole. Racconta (Raccontami ancora, per favore). Aneddoti del paese, poi il cimitero che adesso ospita tutti, anche coloro che la vita se la sono tolta, perché prima erano disgraziati senza riposo, che non li voleva nessuno e si lasciavano riposare nei giardini privati insieme ai fiori e alle radici. Mi porta nella via principale del paese, turistica e affollata, mi racconta di come grazie a lui le insegne dei negozi debbano essere aderenti alle pareti, e conosce la gente, alcuni lo salutano e mi porta su, in alto, fino al Mirador. Fai con calma, ti aspettiamo qui in macchina. Si vede la valle di Cocora, con le sue altissime palme a stecchino.
Sono talmente incredula che fatico a deglutire. In 4 aspettano, in macchina, una perfetta sconosciuta..robe da matti, robe che chi ci crede è bravo e chi non ci crede è scusabile.
Grazie di tutto, dico timidamente una volta che mi sono rifatta gli occhi, non voglio disturbarvi oltre…posso arrivare all’ostello a pie…
No, andiamo a prendere un caffè a casa. Ci farebbe molto piacere.
Sono sempre più affannata, intrisa di emozione e riconoscenza. Accenno l’ennesimo grazie strozzato in gola, mentre si apre il cancello di una residenza arancione, a forma di L. ci fermiamo in giardino, il ragazzo – che è nipote- raccoglie frutta dagli alberi e me la porge. Questa si mangia così…senza sbucciarla…Il sole sta scendendo. Abbandonata su una sedia mordo frutta raccolta per me in un giardino non mio, con persone non mie, che però senza dubbio alcuno, oggi, in qualche misterioso modo, lo sono…mie. Sento una serenità benedetta. Loro non lo sanno – forse lo intuiscono, ma sono certa non nella sua totale complessità – il bene che mi stanno facendo.
C’è una terrazza esterna che si affaccia su un ennesimo mirador e ci sediamo tutti lì bevendo caffè, cullati da tramonto beffardo, seminascosto da nuvole… e mi racconta.
Di come le cose erano e di come le cose sono e di come le cose cambiano e di come noi siamo il cambiamento e la testimonianza del cambiamento allo stesso tempo. Quest’uomo è un pozzo di conoscenza e sento la Colombia tutta uscire dalle sue labbra, dal suo modo acuto e preciso di sviluppare un pensiero, dal suo umorismo lucido, dalle memorie che arredano la sua casa, che bisbigliano di un passato arcano, tanto immaginifico da sembrare appena appena credibile, e allo stesso tempo così tangibile e verificabile e lì, presente. Con le sue stanze e le foto di persone che erano destinate a sposarsi – per decisione della famiglia, non loro- ancor prima di nascere, quando ancora erano nella pancia della mamma. E mi lascia a bocca aperta raccontandomi di un bis bis nonno che era medico e aveva fatto nascere quella che poi sarebbe diventata sua moglie.
Hai letto Cent’anni di solitudine?
Lo sto leggendo adesso, gli rispondo illuminandomi.
Ecco, era così sai? Grandi diversità di età, nomi che si ripetevano di generazione in generazione…e poi mi mostra un quadretto in seta tessuto da una mano sfacciatamente abile. E’ molto antico. Alcune parti sono state tessute con i capelli di un morto. I cari non potevano partecipare al funerale…E’ stato fatto perché avessero un ricordo.
E’ un insieme di vita e morte così unite, così esposte, così appiccicate, così arruffate, come se prima di aver trovato pace – e l’hanno trovata – avessero, la vita e la morte, armato una lotta furibonda ma compassionevole, accettando le diversità piuttosto evidenti dell’una e dell’altra. Non c’è una se l’altra c’è, si dice spesse. Ma quello che imparo io, qui, in questa parte di mondo è che nella mia parte di mondo, alla morte non ci si vuol pensare mai, la si vuol negare fino a quando è lì, atrocemente innegabile e forse per questa velleità rischiosa di negare l’innegabile siamo – io per lo meno – molto più impreparati, più fragili, più illusi, più irresponsabili, più impauriti, più.
Questa casa tutta è fascino autentico, con pezzi antichi, bauli, valigioni, utensili e diavolerie varie. Sono folgorata da ogni cosa, ma più di tutto dall’amore – chiamiamo le cose col loro nome- che mi è stato offerto in un pomeriggio di giugno. Mi portano fino all’ostello. Mi danno un sacchetto con la frutta raccolta nel pomeriggio. Architetto, Sig. Enrique…Mi allungo per prendergli la mano, per guardarlo dritto negli occhi, per essere certa che ascolti le mie non-dette parole e che le colga bene. Tutte. Ci scambiamo le mail e nei giorni seguenti mi arrivano vari documenti con informazioni dettagliate sul dipartimento del Quindio. Quest’uomo è davvero un essere umano sconvolgente.
E non è l’unico. E non è l’ultimo
Nella fredda Bogotà perdo il respiro. Mi distruggono i suoi 2600 metri. Sono colpita da mal di testa e tachicardia, fatico a camminare per strada. I giorni mi vedono un po’ malmessa. Eccetto quando vado a Zapaquira a vedere la cattedrale sotterranea di sale, con le sue navate infinite e le sue croci saline.
La giornata più bella è proprio l’ultima. Molti musei sono gratuiti e per l’ennesima volta vado a trovare Botero.
Poi mi avvio verso il centro culturale Gabriel Garcia Marquez e infine riesco a sgattaiolare dentro il teatro. Mi fanno passare anche se arrivo tardi per la visita guidata. E mi accorgo, di colpo, come se mi avessero spintonato, che non posso – proprio non posso – più temporeggiare: ho fame.
E’ tutto pieno, però se aspetti 10 minuti, mi dice un ragazzo- cameriere gentile.
Si, aspetto, mi fanno troppo gola questi piatti. Mi sono ricordata che è tutto il giorno che non mangio, gli dico toccandomi lo stomaco trascurato.
Bè no, mi dice lui. Non va bene. Indietreggia, scompare nel locale e in cinque secondi torna
Tieni, mentre aspetti.
E’ un biscotto.
Respiro a fondo, riconoscendo la contorsione del mio stomaco (e no, non è la fame) che accoglie lo stupore di un’ennesima persona che decide di ardere e illuminare, Illuminandomi.
Poi si libera un posto, mi siedo, mangio, pago, lo cerco con lo sguardo – è lontano, inghiottito dai tavoli e dalle richieste dei clienti- gli sorrido e dico col labiale “Gra- cias” e ci salutiamo con un rapido cenno della mano.
E’ una giornata calda. Torno nella piazzetta del teatro, lontana 5 minuti. Riprendo a leggere Cent’anni di solitudine e poco dopo riappare lui, David, il cameriere regalabiscotti.
Posso?
Con piacere…
E’ vestito da metallaro. E’ irriconoscibile. Mi dice che lui canta e che sta andando a un festival a Bogotà. Ti va di venire?
Grazie, ma parto stanotte, tra poche ore.
Parliamo di musica.
Ho sempre desiderato fare una prova con un gruppo metal.
Davvero?
Sì, credo sia terapeutico..
Mi dice, gli dico e alla fine ci si saluta quasi come vecchi amici, quando manco abbiamo fatto in tempo ad essere nuovi…amici.
Certi gesti bruciano le tappe. Come questo, di regalare un biscotto, che cancella ogni formalità, ogni timidezza, ogni obliqua e affettata ingessatura. E tante cose non hanno più bisogno di essere spiegate. Se vuoi bruciare le tappe il verbo non è parlare, è dare.
Così come la signora con la tuta a righe e e le pantofole azzurre che mi fa accomodare su un tronco-sedia nel suo giardino e mi porta una tazza di tinto, perché te lo dico io che se adesso ti metti qui tranquilla l’autobus arriva in un secondo.
E così come la famiglia che mi chiede se voglio un passaggio per scendere dal parco Archeologico di San Agustin, con le sue pietre funerarie misteriose, e che invece di riportarmi al paese, mi porta al ristornare.
E così come un’altra famiglia con la quale faccio un lungo tour il giorno dopo, inseguendo cascate e musei e che mi offre il guarapo, una bevanda che si ricava schiacciando direttamente le canne da zucchero, e poi dolcetti e frutta… e prenditi cura di te. Lo farò. E ancora oggi mi scrivono per accertarsi che io lo faccia per davvero
Prenditi cura del tuo corpo e del tuo spirito. Eccolo, in breve, il compito e il lascito durissimo del viaggio in solitaria. Darsi da mangiare, sapersi illuminare, anche quando sei solo che più solo non si può.
Impara ad ardere.
Abbi cura di splendere, ti dice il viaggio. Restituisci quello che hai ricevuto, ad altre persone, a sconosciuti.
Crea una catena illuminata.
Abbi cura di splendere. Anche quando il buio è solido e palpabile, come nell’ostello di Mocoa nel mezzo dell’Amazzonia, senza elettricità e una marea di stelle che guardo con interessa nuovo. Come una persona che ami e conosci da sempre, ma che una sera viene a casa tua carica di un fascino conturbante. Che non l’hai mai vista così. Così impossibile. Così calamita.
Le stelle si sono fatte la piega, sembra. Hanno indossato il vestito migliore, sembra. Solo in Messico, una notte, le avevo viste così. Al tempo era oceano. Oggi è selva.
Il giorno dopo arranco su un sentiero in salita, faticoso, fangoso, lussureggiante, vivo.
Devo inerpicarmi su e giù e di qua e di là e attraversare un fiume con le scarpe in mano, e tronchi e sassi ma ci sono quasi, sono un passo dalla metà. Ma come accade spesso a un passo dalla meta, scivolo rovinosamente su una pietra cadendo di faccia, come da bambini, e necessito di qualche istante prima di rialzarmi per riprendermi dall’incredulità della caduta con la conseguente, sorprendente, repentina perdita della mia verticalità.Mi riportano alla realtà le formiche rosse che passavano di lì, giusto in quel lieto frangente, e col mio braccio destro fanno un banchetto. Questo sentiero si chiama fin del mundo. Perché arrivarci è più che complicato e perché oltre non puoi andare. Si conclude, infatti in cima a una cascata. Ci si corica nella pietra di fianco e si guarda giù. E ti gira la testa tanto sei in alto, con l’acqua che sbotta, il rumore che incanta, la natura che accerchia e il mio braccio che, ahimè, comincia a pulsare.
TU NON PUOI USCIRE CRONACA ANNUNCIATA DI UN AMORE CHE SEMBRA NON VOLER TERMINARE
Succede quando proprio sono a un passo – a un passo, ancora un volta – dal confine con l’Ecuador. La Colombia tutta si blocca.
C’è il paro, lo sciopero.
No, non è come da noi.
Significa, sciopero in Colombia, che si bloccano le strade. Si bloccano le vie d’uscite, che portano agli aeroporti, ad altre città, ad altri Paesi. Per giorni. Per mesi, anche.
Ci finisco dentro, in mezzo, mentre cerco di arrivare da Popayan, a Ipiales. L’autobus a un certo punto si ferma. Non c’è modi di proseguire, Signori, ci comunica l’autista mettendosi le mani in tasca.
Siamo annichiliti, alcuni furibondi. Alla stazione dovevano già saperlo, ma il biglietto ce l’hanno venduto ugualmente. Sono preoccupata, ma valuto in fretta gli aspetti positivi. Per il momento ce n’è solo una, ma è davvero importante: è giorno. So, ormai, che certe situazioni, se di giorno sono problemi di notte sono catastrofi. Sciopero, immagino, significa terra di nessuno, come la frontiera.
Da quando scendo dall’autobus inizia la lunga odissea. Piccoli trasferimenti di pochi km con taxi ovviamente carissimi o con macchine di fortuna bloccate nel perimetro dello sciopero. Leggo un cartello: Pasto 22 km. Pasto è la città più vicina. 22 km significa arrivare di notte… è impossibile. Con me c’è una famiglia – che più avanti perdo- e una ragazzina di 15 anni, Gabriela – che più avanti non perdo.“E’ la prima volta che viaggio da sola” mi dice con un fil di voce e io mi ricordo di sua madre sull’autobus che controlla il sedile vuoto vicino a quello di sua figlia e mi intercetta con occhi speranzosi “Siediti qui”.
Mi hanno assegnato un altro posto, Signora… pero non si preoccupi, le dico facendole l’occhiolino, controllerò che arrivi sana e salva (ed è strano come poco dopo queste parole si riempiano di un senso tutto nuovo)
Camminiamo sotto un sole nervoso, in salita, in silenzio, in apprensione, stanchi. L’ennesima macchina, e stavolta è l’unica che si vede, si offre di portarci avanti per un pezzetto.
Dobbiamo camminare ancora un po’, Gabriela, va bene?
Sì, va bene, mi risponde con una certa tranquillità. Ma da qui è un disastro. Gli scioperanti hanno scaraventato massi in strada, li scavalchiamo. Poi è una una foresta di camion che occupano un perimetro di amento 300 metri. Gli hanno tagliato le gomme per essere certi che nessuno li potesse spostare, mi sembrano bastoncini dello shangai, buttati da due giganti con molta fantasia; parcheggiati di traverso, quasi uno sull’altro, avanti, indietro, allineati, abbandonati. Passiamo sotto la pancia dei mostri a benzina, attraversando quello che sembra un nuovo girone dantesco. Incrociamo dei ragazzi che stanno arrivando dall’altra parte. Muovetevi, ci dicono, sembra che gli animi si stiano scaldando. Gabriela mi guarda, io la guardo. Non so che forma abbia il sorriso che riesco a produrre, ma sono più che certa che di convincente non abbia nulla. E infine ci siamo, nel puro cuore dello sciopero. Persone, mi sembrano tutti uomini, ma di età diversa. Alcuni mangiano, altri sono in piedi, hanno bastoni e pietre nelle mani. Voglio uscire in fretta. Non mi preoccupano loro, ma mi sento stretta, senza fiato, mi sento soffocare dentro quest’ultimo girone di gente disperata, che per farsi ascoltare è così o niente. Oppure il governo con noi non ci parla. O così o niente, Signorina, mi sussurra un ragazzo passandomi di fianco. E sono terribili entrambe le opzioni: il così e il niente.
Sono in Colombia. Anche questa è Colombia. La mia Colombia, il luogo tra tutti, dove in assoluto mi sono sentita più al sicuro. E adesso chi illuminerà questo buio? Il loro, mica il mio… che io passo in fretta. Devo solo racimolare la forza per l’ultima salita e poi al di là della collina ci sono i taxi collettivi che mi porteranno a Pasto, alla stazione degli autobus, dove Gabriela incontrerà i suoi parenti, dove non faranno entrare le persone perché è tutto fermo, collassato, è tutto senza piani è tutto da rifare. In stazione dove cerco di ragionare con chi mi ha già detto, che lì, è inutile, non posso entrare. Per favore, devo trovare una connessione, devo prenotare un ostello, non conosco questa città, ho bisogno di un posto sicuro.
Allora va bene, ma in fretta. E poco dopo sono su un taxi, col nome dell’ostello scritto sulla mano, frastornata fisicamente e mentalmente, distrutta e senza giraci troppo intorno, triste. Triste più che spaventata.
Domani cercherò di andare in Ecuador, dico distrattamente al tassista.
Domani no, amiga. Domani scioperiamo anche noi, bloccheremo tutte le strade. Non ci sarà modo di uscire da Pasto, neanche per prendere un aereo.
Resto in silenzio e accetto – arrendevolmente addomesticata dagli eventi macigno di quel giorno, con le spalle indolenzite e una spossatezza inconsolabile – di mettermi il cuore in pace e aspettare.
Tu non puoi entrare, erano state le prime parole che mi erano state rivolte alla frontiera di Panama, tu non puoi uscire le ultime in Colombia.
Ecco. Siamo questo. Prede più o meno consapevoli, forse, di tensioni interne ed esterne. Di cose che ci vogliano tenere e altre che ci vogliono lasciare. Di persone che ci vogliono tenere e altre che ci vogliono lasciare. Di Paesi interi che ci vogliono tenere e altri che ci vogliono lasciare.
Finisco, quella notte, Cent’anni di solitudine. Naturalmente sospiro. Naturalmente piango.
Siamo in mezzo, penso. Siamo in mezzo, che più in mezzo non si può. Siamo in mezzo alla fame – metaforica e non, nostra e non – se nessuno si prende la briga di saziarla.
Ai cent’anni di solitudine di ogni sacrosanta persona.
Ci siamo in mezzo. Nei gironi danteschi di altri. Nella fame non saziata.
Tre giorni dopo sono le 10 di mattina.
Ecuador.
Canzone consigliata per la lettura: “Undone” dei Sodastream