Le cose da sapere, in fin dei conti, non sono molte.
Adelante e remate col remo in avanti.
Atràs e remate in senso contrario.
Alto, posizionate il remo sulle ginocchia e non remate.
Al piso, vi dovete buttare dentro il gommone. Subito.
E si rema con grinta ragazzi, non come galline spaventate!
Mi verrebbe da urlare “Si, signore!” come se fossi dentro un film di guerra qualunque tipo Full Metal Jacket o il Cacciatore o Apocalypse Now, ma no..sono in Costa Rica e sto per fare rafting. Niente di più.
Quindi, davvero, la questione non merita tutta questa enfasi, anche se, con toni e modi adeguatamente traslitterati, tutta questa enfasi la merita la bellezza inconcepibile che stiamo attraversando.
Il rio Pacuare.
Lo cavalchiamo con l’illusone illusoria che in parte lo stiamo domando, che conosciamo questo fiume come le nostre tasche e che le rapide ce le mangiamo a colazione.
Ma insomma, non è così, neanche lontanamente, neanche per gioco, neanche per sogno, neanche di traverso, neanche per sbaglio. Neanche.
ALTO
“Palo Alto!” grida Angel, il nostro Caronte per un giorno. Il fiume spinge da solo, i tuoi muscoli lasciali riposare. Il fiume – fiume bello, fiume caro- sa cosa fare. A te resta da spalancare gli occhi di fronte alla meraviglia, alla natura intorno: alberi e sassi e cielo e uccelli e nuvole. Palo alto, che adesso non c’è niente da domare. Solo apri gli occhi. Che sei qui e non altrove. Sei qui e non altrove. Fermati.
Non amo le città. Le città grandi, le capitali, le strisce pedonali sature di pensieri, parole opere e omissioni; gli autobus incasinati e io non so dove mettere lo zaino e dove scendere e sto facendo perdere tempo a tutti con le mie domande da scusatenonsonodiqui. Le città grandi, Posti di grandi via vai culturali, di incroci intensi, di gente che si bacia disperatamente vicino al baracchino degli hot dog e di hot dog che si mangiano disperatamente vicino a gente che si bacia. La città che ti investe in ogni angolo con dolori e odori e sapori e liquori. Che se ti vuoi ubriacare, sei nel posto giusto. In città. Con la gente stramazzata al suolo, la notte, e altra che al suolo ti vuole stramazzare. Stai attento, di notte, in città. Che ti smontano come un burattino, nel tempo di un niente.
La città dove ci sono anche i parrucchieri. E io ne ho un bisogno disperato. Inequivocabile.
Claudia, che Dio la benedica, mi ha già organizzato la vita: la banca è qui, il supermercato là, il negozio economico dove comprare un po’ di tutto qua, il centro commerciale…no, al centro commerciale non ci vado, mi mette amarezza (Balla, ci andrò invece, e più di una volta, inoltre)
E poi c’è il parrucchiere e sembra bravo e usa prodotti italiani che non mi bruceranno i capelli, dice, e inoltre sembra si sia fermato agli anni 50 dal casco che improvvisamente mi trovo in testa.
Quando viaggi da parecchio tempo, una cosa da fare, sacrosanta, che impari e anche piuttosto in fretta è che se un posto ti piace, non hai scelta: ti devi fermare. Devi, perché ne hai bisogno. Ne hai bisogno perché l’urgenza di mettere radici ce l’hai dentro, nel sangue tuo, nella struttura a doppia elica del dna. Ne hai bisogno perché non ci sono altre possibilità: sei stanca. Hai bisogno di posti dove le persone ti chiamano per nome e la tua faccia corrisponde a quel nome.
E’ irrazionale e casuale (per lo più inaspettato). Il posto che ti piace arriva all’improvviso. Ci hai messo un piede dentro, distrattamente, pronta per toglierlo in fretta, che devi proseguire il viaggio, ma invece…proprio ma proprio no. Non devi proseguire. Ti devi fermare. Avanzare con l’altra gamba affinché i piedi si possano allineare. Non fuori, dentro.
Mi sono fermata in una città, una capitale. Tra tutte le capitali del centro America, l’unica che nemmeno le guide hanno il coraggio di definire affascinante: San Jose.
Perché l’ostello mi ha stregato.
Perché Claudia ha un sorriso e una grazia da restarci secchi e mi risolve tutti i problemi.
Perché con Alonso ci confrontiamo sui grandi temi della vita mentre ci mangiamo al mattino puncake a ananas e perché mi piace la forma del divano e il mio materasso è comodo e la cucina è grande e nel parco davanti a casa ci stanno lavorando perché diventi più bello e perché in fondo mi piacciono le strisce pedonali sature di pensieri, parole, opere e omissioni. E anche la gente che si bacia. Ma solo se disperatamente si bacia. E solo se l’hot dog è favoloso.
ADELANTE
Si rema improvvisando una abilità del braccio che in realtà – ma a chi vogliamo darla a bere?- non si ha, col fianco che ruota all’unisono, mentre la schiena si flette e la gamba si tiene stretta al gommone, col piede infossato sotto, per non caderci dentro al fiume. Che è bello da star male, ma ugualmente caderci dentro no.
Avanti, per favore. Uno, due, uno, due, uno, due, uno.
Un passo e quello che segue, uno e due. Due, numero pari. Numero di piedi e gambe. Numero di condivisione per antonomasia, numero mai stato da solo in vita sua, numero d’insieme, numero che ti amo forte, siamo io e te, in due.
Uno e due, attenti a non perdere il ritmo, che altrimenti succede un patatrac.
Avanti che il fiume te lo devi conquistare, cosa credevi? Non preoccuparti. Il muscolo nel braccio ce l’hai, anche se non si direbbe. Non ti preoccupare e segui il remo della persona che ti sta davanti. Segui il ritmo, ascolta il fiume.
Lascio San Jose di mattina presto. Si parte sempre molto presto o molto tardi, difficilmente si lascia un posto di pomeriggio. Il pomeriggio è per restare. La notte e l’alba per andare via. Per muovere i passi, per vedere cosa succede là fuori. Uno e due, un passo dopo l’altro. Due: numero di condivisione. Come gli occhi che condividono – il destro col sinistro – il vulcano Arenal, il più attivo della Costa Rica, che quando sbotta fa danni, e una parte del monte è bruciata che li non ci cresce più neanche un filo d’erba, neanche un pensiero, neanche un’idea. Ma tutto intorno è verde il parco dell’Arenal e vedo un formichiere appollaiato su un ramo e all’imbrunire una scimietta in controluce. Piccola, che cerca di prendere il ramo con tutta l’inesperienza che ha. E lo prende.
E non mi accontento di fotografarla la cascata nel parco.
Quanto tempo abbiamo?
15 minuti.
Va bene. Mi tuffo. E’ gelida. Perché sei gelida?
Voglio andare dietro, voglio vederla che scende, mentre sono nascosta nelle rocce. E si fa una fatica, ma una fatica… Perché l’acqua ti spinge via e le rocce sono spigolose o scivolose o entrambe le cose. Mi attacco come posso, mi arrampico che sembro il formichiere visto poco fa – con quello slancio, con quell’attitudine lì… mamma mia – e sono dietro che respiro l’acqua che mi entra nelle narici in pulviscoli e vorrei prendere fiato ma non si può. E fa un rumore infernale lì dietro, però l’inferno non me lo immagino così, perché qui è bello, solo tanto forte. Molto più forte di me e devo andare via. Mettermi al sicuro. Proteggermi.
AL PISO
Al pisoooooooo!!!!
Al piso = culo dentro il gommone, ginocchia in bocca e aspettiamo che il fiume smetta di sballottarci da tutte le parti… Le rocce sotto e il fiume tremendamente innervosito per non dire brutalmente incazzato, che ti muove rapido e indolore, come una iniezione di quelle che si facevano a 6 anni, e che ugualmente frega niente se è rapido e indolore, io ho paura lo stesso.
Questa è uno scossone come si deve, signori e signore. Ohssì.
Quanto tempo bisogna stare così, Angel?
Quattro giorni. Mi fermo 4 giorni a Santa Elena, a Monteverde. Ho scelto un ostello familiare. Significa che lo gestisce una famiglia. E poi nelle foto vedo che le pareti sono di legno e che c’è la colazione inclusa. Col gallo pinto e le uova e il platano fritto e non ho bisogno d’altro, davvero.
Che bella che è questa famiglia. Numerosa, con fratelli e sorelle, e papà e mamma. Ed è semplice. Tutto. Si lavora, si lavora tanto, insieme. Si lavora con la pura vida nel sangue e le tortillas sul fuoco e i fagioli immancabili e Lucia mi racconta che in Costa Rica c’è un esame sull’Educazione. Su come si risponde alla gente. Sull’importanza di rispondere con gentilezza. Un esame a scuola sulla gentilezza. “Con gusto” si risponde a un grazie. In Guatemala era “No tenga pena” adesso tutto viene fatto con piacere, perché tu stia bene. E alcuni giorni più tardi passando davanti a una scuola leggo scritto a caratteri cubitali sul muro: Qui si studia per diventare persone migliori. Diosanto. Sì. E’ proprio per questo che si studia. E’ questo il senso astratto dell’imparare che in quelle parole mi sembra così concreto e pragmatico e, porcamiseria, lineare, asciutto, folgorante e vero.
E la Costa Rica è tutta asciutta così. Con sentimenti grandi da tutte le parti, ma privi di sovrastrutture e dietrologie. Se ti amo ti amo. Non so spiegartelo in altro modo. Voli pindarici no, qui in Costa Rica. A volare lascia che siano i tucani e i colibrì.
Tutto grande come il bradipo che ho la fortuna fortuita di vedere durante una passeggiata notturna nei boschi. Con quel suo modo beffardo e succinto di vivere la vita. Con quelle unghione che si conficcano al ramo mentre sale, senza negarci il suo volto, nella cui espressione io leggo un ciao, ma che potrebbe essere anche, levami quella luce dalla faccia.
La mia famiglia è di Biolley. Abbiamo lasciato il monte per venire a lavorare qui. Ma il mio cuore è là.
Davvero Lucia? E cosa c’è a Biolley?
ATRAS
Angel non sono capace..Com’è che si fa a remare all’indietro? E’ impossibile, l’acqua spinge non si può. Sto facendo un macello.
Sì, stai facendo un macello.
Col mio remo che si intreccia con quello davanti e quello dietro. I muscoli che cercano di capire come funzionare, e noi incagliati tra le pietre del fiume, che non possiamo più andare avanti…forse indietro..
Mi sa che a questo punto sono cavoli amari, perché appena rimetto piede nell’Hostel Urbano, in San Jose, quartiere San Pedro, mi sento, miseria ladra, a casa.
La Costa Rica è piccina e funziona così: C’è una capitale dalla quale partono tutti i bus del mondo e ogni volta che vuoi spostarti da A a B, A è sempre San Jose, la capitale, quella per niente affascinante che si diceva prima.
Quindi da qui tutto comincia
o anche, da qui tutto ricomincia.
E’ mio questo ostello, con i suoi letti a castello in legno – e io che sono pronta davvero a qualunque cosa pur di avere il letto in basso. E la gente russa, ma il giusto.
Carlos, taxista poeta, lo rivedo. Ci sono anche le sue gambe da fenicottero con lui. Ciao gambe, ciao Carlos.
Andiamo al karaoke, perché lui ha quella voce lì da tenore che insomma vale la pena farla ascoltare un po’ a tutti.
E’ tutto da scoprire questo ragazzo. Era uno sportivo un tempo. Uno dei migliori in Costa Rica di kick boxing. Poi un giorno succede che uno più bravo di lui gli frantuma il ginocchio in tanti pezzettini e ciao carriera.
E’ pieno di cicatrici questo ragazzo. Gliene sono successe di tutti i colori e mi convinco che ha 7 vite come i gatti, ma tre sono andate, quindi senti un po’ Carlos, adesso bisogna proprio che tu ti dia una calmata, ok? E gli piace la velocità e spingere la macchina sulla strada e non si direbbe minimamente da come cammina, da quel modo pacifico e irregolare di appoggiare i piedi, da quel suo essere gentile e garbato da uomo di altri tempi. Quanti anni hai? mica si capisce. Un’età ha la tua voce, un’altra il tuo essere spericolato, un’altra il tuo picchiare duro, un’altra il tuo passato in una città poco cordiale come san Jose.
E nell’ostello continuo a scambiarmi idee con Alonso e la pensiamo uguale su tanto. E ci parliamo e ci guardiamo con un affetto millenario e mi dice: mi mancherai tanto quando andrai via…
Eh… Pensa quanto mancherai tu a me.
E poi c’è Felix che si legge tutti i quotidiani del mondo, e al mattino si mangia l’avena e fa 200 colazioni e si allena facendo la sedia invisibile e mi obbliga a farla insieme a lui…
E poi parla e si muove come se fosse dentro un’opera teatrale e rido da star male, a volte-spesso, quando mi prende la stupidera. E lui ride con me, che la stupidera ha amore per tutti e pietà per nessuno.
E poi c’è il parchetto che sta prendendo forma..hanno tagliato i tronchi ormai andati e sistemato alcune panchine qua e là…Sta diventando carino.
Claudia mi aiuti?
Si bella, certo
voglio andare a Biolley.
Biolley?
Sì, è un paesino con due anime in croce sui monti.. Vado a vivere con una famiglia. La Costa Rica la voglio vedere attraverso i loro occhi.
Vediamo che bus devi prendere. Quando parti?
Domani
E ritorni?
Si
Hai bisogno di una mano anche per il ritorno?
No Claudia, ritornare qui non è mai- ahimè- un problema.
ADELANTE
Adelante è un termine che mi piace tanto. “Avanti” è già stupendo in italiano, eppure nella sua declinazione spagnola c’è un qualcosa… c’è la musica. Adelante è già una canzone.
A – De – Lan -Te
Se lo si pronuncia piano, sussurrandolo appena, sembra una ninna nanna, una stregoneria per addormentare bimbi iperattivi e invece no: è una promessa, l’invito inarrestabile al movimento, la costanza dell’andare, la fantasia del corpo che desidera il dopo, il nuovo, l’altro. Un’esortazione mai imprecazione.
C’è il fiume dopo, per ore e ore. Dentro a una natura selvaggia-incanto, tanto selvaggia-incanto che sembra ricostruita, come se tutto questo fosse il set di un film fantasy.
Angel dove sono gli hobbit?
Dove sono gli elfi? Dove sono i nani? E dove sono gli orchi? Sempre che ce ne siano, di orchi.
A Biolley ci arrivo dopo un autobus di 6 ore, un’attesa di 2 ore in una Soda nel mezzo del nulla, e un secondo autobus di quasi 2 ore su strade impossibili con un caldo malsano, nel senso di…malsano.
Fatico molto a tenermi sveglia sono in piedi dalle 4 di mattina. Il bus si ferma varie volte, spesso include tappe a eventuali baracchini con mango, angurie e banane.
Non so bene quando dovrò scendere. Ho detto all’autista il nome della mia famiglia, come se fosse una fermata dell’autobus. Come se le fermate non esistessero, ma solo le famiglie, le case, le persone dalle quali vuoi andare.
Sono appisolata ma una giovane donna mi bussa al finestrino.
Sei tu?
Sì, mi fa con la testa. E’ Yemie, amica di Lucia.
Lucia che con i suoi racconti mi ha irretita e ci è voluto poco, favoleggiando di un paesino in mezzo alla natura pieno zeppo di omini e donnine che sognano e progettano. E questo è, davvero, per davvero, Biolley.
Alla fermata, Yemie mi fa sedere sulla sua macchina e i posti che restano vuoti li riempi in fretta offrendo passaggi a destra e manca. E lungo il tragitto è tutto un salutare chi si incrocia e fare ciao ciao con la mano. Che non è un ciao ciao, è piuttosto un indicare col dito indice, come fanno le rockstar sul palco, come a dire “Tu, proprio tu volevo incontrare e tu proprio tu avevo voglia di salutare. Oh sì, baby!”
Arriviamo nella sua casa e ho la riprova che la Costa Rica, con i suoi microclima è una follia, e a distanza di 20 minuti tutto cambia e se prima faceva un caldo umido e molliccio ora c’è un fresco rinvigorente al limite del freddino.
Biolley, una manciata di anime, ed ora anche la mia, nel mezzo di una finca, un pezzo di terra con bosco, nella famiglia di Yemie, con suo padre, sua madre e suo figlio.
Se vuoi possiamo stabilire un prezzo buono che includa pranzo e cena. Ti potrebbe interessare?
Essì che mi potrebbe interessare.
La cucina campesina…con la carne di pollo o maiale, prodotta da loro, con le infusioni di hierba buena, con il loro miele (mai, mai provato un miele così), con la juca fritta insieme al formaggio e l’immancabile gallo pinto al mattino e le uova che voglio dire, se non ti piacciono le uova, i fagioli e il riso, davvero meglio che tu nel centro America non ci metta piede.
Biolley dove un gruppo di donne, 20 anni fa, in una società machista fino al midollo si univano in un’ associazione per produrre caffè. Loro sole, sbagliando anche, bruciandolo il caffè, perdendo con un dolore folle molto di quello che avevano costruito in un incendio improvviso. Con alcuni mariti che a casa non lo mangiavano il pranzo lasciato dalle mogli, perché le mogli dovevano servirlo nel piatto.
ASOMOBI -Asociación de Mujeres Organizadas de Biolley- così si chiamano. E ora vendono il caffè alla illy in Italia, perché è uno dei più buoni nel mondo, e voglio dire di strada ne hanno fatta queste donne mie. Che sono come le formiche che si vedono qui, che trasportano pezzi di foglie enormi, grandi per lo meno 50 volte il loro corpo.
Queste donne con un sorriso miele, con spalle forti, con cuore grande, con nessuna voglia di arrendersi. Con nessuna voglia di piegarsi. Con nessuna voglia di perdere. Con nessuna voglia di fallire. E tutta la voglia di vincere. E infatti, alla fine, hanno vinto.
A Biolley dove incontro Edgar, un allevatore che con gli escrementi della sua scrofa produce il gas per la cucina. E le sue mani mi raccontano che la sua università è stata la stalla e i suoi professori i pesci nello stagno e le vacche e le galline e gli esami sono le stagioni e lui è un uomo meraviglioso, perché niente viene perso, tutto serve per produrre altro, dagli escrementi in avanti.
Così come fa Pancho. Col suo progetto di riciclaggio, con la sua genialità, con una casa-studio che sembra un incrocio tra il parco Güell di Gaudì e un film qualunque di Miyazaki. Un mondo immaginifico, con un suo ordine, con una sua misura, dove nessuna cosa è solo quello che è. E vorrei tanto entrare nella sua testa e leggere la sua fantasia e vedere cosa vede lui e palleggiare con la sua follia e la sua stravaganza e tirare dei gol ogni volta che un’idea diventa realtà.
E poi c’è la mia famiglia a Biolley con cui rido molto guardando telenovelas messicane con personaggi di una cattiveria becera che gli fa un baffo qualunque archetipo di personaggio antagonista mai creato fino ad ora.
A casa con loro, che si mangia alle 6 di sera e si dorme alle 9 e non c’è proprio altro da fare, se non ascoltare la pioggia che è tremenda e smodata e lusinghiera e soporifera. E i bambini per strada si conoscono tutti e ti camminano vicino
hai mai mangiato una manzana de agua?
No, mai
Ed eccoli che si prodigano per fartela cadere dall’albero, da un qualunque albero perché qui c’è frutta in ogni dove. Frutta che non ho mai visto, verdura che non ho mai immaginato. E persone che, semplicemente, pensano sia giusto e sacrosanto che tu la possa provare
E il papà di Yemie, Minor, un omone grande e grosso piange mentre mi saluta, e dopo avermi abbracciato forte va via, che è pur sempre difficile farsi vedere con le lacrime agli occhi quando sei abituato alle punture delle api e alla terra e ad allevare galline e maiali e non ci si aspetta che tu pianga per una italiana, che potrebbe essere tua figlia e che chissà, forse lo è stata, per il tempo di una settimana.
AL PISO
Di orchi se devo essere sincera ce ne sono sì, forse qui no. Qui al massimo c’è da mettere il culo in fretta nel gommone perché senno caschi giù. Io rischio di cadere 4 volte. L’ultima devo serrare la gamba e buttarmi in avanti, e tutti gridano un “Woooooooooooo” di quelli che anticipano o posticipano un fatto eclatante.
Ohi le italiane, cascano giù! Ridacchiano sul gommone.
No, correggo io, stanno per cadere…ma poi restano a bordo.
Si chiama Silvina.
Ha 94 anni e ho già capito che ci siamo capite. Ancora prima di entrare nella sua casa, sento l’energia di qualcosa di grande che sta lì dentro… ed è lei.
Splendida. Con la sua collanina a due giri, con i capelli raccolti e lo smalto rosa e giallo nelle unghie, che voglio dire, quella gioventù lì a te non te la toglie nessuno.
Siamo già mano nella mano io e Silvina senza nessuna ragione. Solo che ci siamo sentite io e lei. E ci guardiamo profondamente negli occhi.
Capita, mi è già capitato durante questo viaggio, che alcune persone mi stessero aspettando.
Silvina mi aspettava.
Io aspettavo Silvina.
E’ un’ india, mi dice Jimmy (che ha portato me e Yemie a Pérez dove prenderemo l’autobus per San Jose).
Lei accenna un sì orgoglioso con la testa. Perché essere indio è un valore aggiunto e lei lo sa.. Dentro, immersa nella natura, ha iniziato a sapere.
Adesso non mi fanno vivere da sola le mie figlie, perché mi fa male l’anca, mi dice.
Signora lei è bellissima
No, mi risponde, ma è un no che invece è sì.
Che la sua bellezza risiede anche nel fatto che sa si esserlo. Bella.
Con quegli occhi che devono everne viste di tutti i colori – Jimmy mi racconta, dopo, in macchina, che Silvina, andava nei boschi, mungeva le vacche selvatiche e tanto era il suo carisma da riuscire a domarle fino a costringerle a sedersi per terra. Un metro e trenta di donna, diosanto – e non ultimo essere la nonna o la sorella del nonno, difficile da capire, di Keylor Navas, il portiere del Real Madrid. E le brillano gli occhi…e come le brillano.
Le racconto del mio viaggio. Che anche sono stata male, che anche mi hanno derubato, che però tutto questo l’ho lasciato nel passato.
Comincia a benedirmi. Quante benedizioni in questo viaggio. E dice che non sono sola. E di pensarla ogni volta che ho paura.
E ci facciamo una foto insieme, con sua figlia anche, la maggiore. E lei, nel mezzo, tiene le nostre mani strette e a loro volta unite. E io capisco che questa donna è una donna che include, che non separa, che mette insieme le cose, che non disperde ma canalizza l’energia, i pensieri, l’amore, i sentimenti, il tutto.
Le dico che ho 36 anni, lei continua a sbagliarsi e me ne da 10 , 7, 4 in meno.
E pregherà per me dice. Di star tranquilla, che il Signore mi protegge sempre, dice.
E io credo che per me, abbia pregato già prima… ancor prima di conoscermi. E quando è il momento di andare via non riusciamo a separare le nostre mani, ma poi, per forza, succede e mi sembra una cosa totalmente innaturale e ingiusta e immotivata. Ma mentre si viaggia di cose ingiuste ne succedono molte. E la più brutale di tutte è dirsi addio.
ATRAS
Siamo di nuovo impigliati Angel..
Sì remate indietro, per favore, forza! bisogna tornare indietro, tornare lungo il fiume.
Che è la giusta via.
La via di casa.
Ciao Patriiiiiiiii!!
Ciao, ragazzi!
Sei tornata!
Eh sì. Sono ancora qua.
A casa mia.
Che qui, a San Jose, è un ostello, nel quartiere San Pedro, grande e luminoso, con persone che mi stringono forte e che mi chiamano per nome.
Il parchetto di fronte a casa l’hanno finito.
canzone consigliata per la lettura: “Adelante!Adelante!” di Francesco De Gregori